venerdì, Marzo 29, 2024
SpecialitàortopediaLa chirurgia protesica nel trattamento dell’edema osseo

La chirurgia protesica nel trattamento dell’edema osseo

Michele Scelsi ha riepilogato le evidenze relative all’efficacia dei mini impianti nell’edema osseo, confrontando i casi di osteoartrosi e osteonecrosi, nel corso del convegno di BoneHealth del gennaio 2022

I possibili trattamenti per l’edema midollare dell’osso (bone marrow edema, BME, o edema osseo) includono anche le protesi monocompartimentali o mini impianti, che sono poco invasive, con minime complicazioni e affidabili. Michele Scelsi, Dirigente Medico presso il reparto di Chirurgia Protesica “CASCO” presso l’I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha riepilogato la letteratura sull’uso di mini impianti nell’edema midollare dell’osso in occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche“.

Lo sviluppo delle protesi monocompartimentali

I primi mini impianti, a opera di McKeever e Macintosh, furono usati intorno agli anni Sessanta: erano rivestimenti tibiali applicati in casi di artrosi.

Sono dei design che, con le conoscenze attuali, noi definiamo ‘immaturi’: non considerano la simmetria di consumo. Noi sappiamo che quando c’è un’artrosi, tipicamente mediale, il femore è più consumato distalmente piuttosto che posteriormente; viceversa, nel ginocchio valgo: con un’artrosi esterna abbiamo un consumo prevalentemente posteriore. Questo mismatch per noi chirurghi è fondamentale correggerlo, perché dobbiamo equilibrare l’impianto durante tutta la flessoestensione.

Dato che con questi impianti tibiali non si poteva agire sui mismatch, si avevano stress meccanici sull’impianto che portavano a mobilizzazioni e fallimenti, nonché dolori per i pazienti. Negli anni Settanta, Gunston realizzò protesi più simili a quelle moderne: includeva una componente femorale metallica femorale (non anatomica) semicircolare da posizionare molto posteriormente sul condilo. Quindi, favoriva maggiormente la flessione: in estensione, sotto carico si avevano forze di taglio che comportava fallimenti. Inoltre, la controparte tibiale era una sorta di binario all’interno del quale si doveva incasellare la ruota lungo tutta la flessoestensione, dando stress, e quindi mobilizzazione e fallimento, a causa della naturale rotazione del ginocchio. Sempre negli anni Settanta, grazie a Marmor, si ebbe anche la nascita delle protesi mono moderne: femori anatomici di rivestimento e tibie in polietilene piatte (che in alcuni casi hanno metal back).

Le protesi monocompartimentali oggi

I mini impianti si sono evoluti nei materiali e nelle declinazioni. Le protesi monocompartimentali possono essere adattate a casistiche molto differenti, poiché possono essere:

  • con piatto fisso o mobile;
  • per il comparto mediale, laterale o anteriore;
  • cementato o non cementato;
  • anallergico;
  • con strumentari sofisticati che consentono di correggere tutti gli spazi finemente;
  • c’è anche la possibilità di avere una navigazione assistita, per sapere come e quanto correggere la asse della gamba.

La parte di fresatura può anche essere delegata a un robot, mentre l’umano si occuperà della cementazione. Inoltre, questi interventi possono essere eseguiti con protocolli fast track (o ERAS, Enhanced Recovery After Surgery), in regime di day surgery, salvo complicazioni che rendono necessari rientri, oppure tornando a casa entro 2 giorni di degenza con carico totale a tolleranza e con stampelle.

Chirurgia protesica ed edema osseo

In caso di bone marrow lesion complessa si predilige una protesi monocompartimentale o mini impianto. Si considera la lesione complessa quando la prognosi attesa è sub-ottimale, in base agli strumenti a disposizione.

I principali fattori generali che influenzano la prognosi post chirurgica includono:

  • L’età, che al crescere è associata a un minore potenziale rigenerativo;
  • La disponibilità dei pazienti per effettuare la convalescenza o la loro impossibilità a conciliare tempistiche incerte con la propria vita, ad esempio a causa della professione che svolgono;
  • Mancanza del necessario supporto familiare o disponibilità economica per effettuare un percorso riabilitativo impegnativo;
  • Paziente con bassa compliance;
  • Grado di cronicizzazione del dolore, che può includere una componente neuropatica che non è rimovibile, nel qual caso è necessario intervenire in modo definitivo.

I fattori locali che influenzano queste consistono in:

  • Lesioni reciproche (kissing), incompatibili con gli innesti osteocondrali;
  • Profondità, estensione, posizione della lesione, che renderebbero l’innesto instabile;
  • Lesioni associate;
  • Deviazioni assiali.

Non dimentichiamoci mai di analizzare il paziente nella sua totalità.

Protesi monocompartimentali e osteoartrosi

Numerosi studi hanno esaminato l’efficacia dei mini impianti nei casi di osteoartrosi. Ad esempio, una ricerca prospettica pubblicata su The Bone and Joint Journal che ha considerato mille impianti, ha rilevato una sopravvivenza del 91% a 15 anni (83-98%) con risultati funzionali OKS e AKSS affidabili. In passato si credeva che i mini impianti non fossero adatti nei pazienti ad alta richiesta funzionale, ma gli studi, come l’indagine del 2016 pubblicata su The Knee che ha considerato mille pazienti, hanno rilevato che non c’è una differenza statisticamente significativa tra persone con alte e basse richieste funzionali. Nel caso in cui vi fosse una differenza, sembrerebbe essere a favore dei pazienti più attivi, forse per la protezione fornita da un elevato livello calcico.

Nei pazienti normopeso, i mini impianti danno migliori risultati funzionali e in termini di sopravvivenza. Tuttavia, nei pazienti obesi si ha un maggiore miglioramento fra preoperatorio e postoperatorio: secondo gli studi, come Murray e colleghi del 2012, sono i pazienti che beneficiano maggiormente di questo trattamento.

L’efficacia della chirurgia protesica nell’osteonecrosi

Da dati retrospettivi da una review del 2006 con follow-up medio a 5 anni emerge che i mini impianti su osteonecrosi a partire dal 1985 danno risultati paragonabili a quelle effettuate per l’osteoartrosi, con buon outcome nel 100% dei casi. Ottimi risultati emergono anche da uno studio prospettico europeo multicentrico eseguito nel 2008, da Servien e colleghi. A 5 anni, i 33 pazienti con necrosi e i 35 con artrosi avevano identici risultati per dolore, articolarità oggettiva e funzionalità; quindi, l’osteonecrosi risultava beneficiare maggiormente dal punto di vista funzionale, perché prima della chirurgia i pazienti erano in condizioni peggiori delle persone con osteoartrite. I risultati di sopravvivenza erano del 92,8% per i pazienti con osteonecrosi e del 95,4% per quelli con osteoartrosi. Esiti paragonabili sono stati osservati anche nella ricerca pubblicata nel 2017 su Journal of Orthopaedics Surgery, su 23 pazienti con osteonecrosi confrontati con 235 pazienti con osteoartrosi (follow up a 5 anni).

Con follow-up più lungo, a mediamente 10,9 anni (con massimo ai 25 anni), lo studio di Heyse e colleghi del 2011 su 52 pazienti riscontrava sopravvivenza globale del 90,6% a 15 anni, concludendo che l’osteonecrosi può essere trattata con successo anche sul lungo termine. Gli esiti dei mini impianti nell’osteonecrosi sono stati analizzati più approfonditamente nell’analisi di Yoon e colleghi del 2018, che ha rilevato tassi di revisione e risultati clinico funzionali analoghi per artrosi e necrosi, anche se con tassi di significatività bassi (rispettivamente, p= 0,71 e 0,66). Inoltre, la review ha rilevato simili modalità di fallimento per mini impianti cementati, sia a piatto fisso, sia a piatto mobile, mentre per le protesi non cementate c’è maggior tasso di fallimento in caso di osteonecrosi.

Infine, lo studio retrospettivo del 2018 di Chalmers e colleghi, eseguito su 41 pazienti con osteonecrosi monocondilare (SONK) e 5 con necrosi secondaria (follow up medio di 5 anni, da 2 a 12) ha rilevato risultati affidabili e con minime complicanze a 10 anni. Tuttavia, ha riscontrato risultati peggiori in caso di necrosi secondaria: risultati peggiori a medio termine (RR 7,7 p=0,03) e minore sopravvivenza. In particolare, a 5 anni era dell’89% contro il 93% della SONK, e a 10 anni era del 76% contro il 93%. La modalità di fallimento più comune risultava essere la progressione dell’artrosi.

Conclusioni

In conclusione, la protesi mono è un’opzione affidabile, riproducibile e duratura; per me è l’indicazione principe nell’osteonecrosi.

Anche se la qualità delle evidenze è migliorabile e occorre considerare la riabilitazione, i risultati funzionali e di sopravvivenza per le protesi monocompartimentali oggi risultano analoghi per osteonecrosi e osteoartrosi anche sul lungo termine; trattano anche le lesioni associate: con la protesi è possibile trattare condropatie, lesioni lemniscali e lesioni assiali in un colpo solo. Tuttavia, i mini impianti non cementati danno risultati peggiori nei casi di osteonecrosi.

[È sempre importante tenere la mente aperta] per scegliere la terapia migliore, più efficace e più sicura per quel paziente.

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