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Trattamenti farmacologici per l’osteoporosi maschile

L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una ridotta massa ossea e da un deterioramento microarchitettonico del tessuto osseo, che porta a un aumento della fragilità ossea e delle fratture. Queste ultime rappresentano un grave problema di salute conseguente all’osteoporosi, che comporta un aumento del rischio di mortalità, disabilità, perdita di indipendenza e aumento dei costi medici. In tutto il mondo, il 23% delle donne e il 12% degli uomini è affetto da osteoporosi, con una prevalenza che aumenta significativamente con l’età; è stato evidenziato che le fratture negli uomini sono associate a maggiori complicazioni e un maggior bisogno di cure a lungo termine.

Negli anni sono stati sviluppati diversi trattamenti farmacologici per ridurre il rischio di fratture in pazienti con osteoporosi, rivelando la loro efficacia, comprendendo però negli studi clinici principalmente donne in postmenopausa. È invece ormai accettato dalle agenzie regolatorie la concessione dell’immissione in commercio di questi farmaci anche per gli uomini affetti da osteoporosi, a seguito di alcuni studi integrativi.

In questi studi, il risultato primario non è più il rischio di frattura, ma piuttosto un aumento della densità minerale ossea (BMD) simile a quello osservato nelle donne. I requisiti per questi trial clinici di integrazione del sesso maschile includono l’uso della stessa formulazione, dose e via di somministrazione; l’inclusione della popolazione maschile con lo stesso rischio di frattura delle donne in postmenopausa prese in analisi precedentemente; cambiamenti di BMD simili alle donne in uno studio della durata di un anno.

Nonostante l’efficacia del trattamento farmacologico sugli uomini è meno studiata rispetto alle donne, alcuni studi pubblicati recentemente hanno evidenziato dei risultati simili negli uomini. L’obiettivo di questa review è quindi identificare e riportare l’efficacia degli interventi farmacologici contro l’osteoporosi negli uomini attraverso una meta-analisi.

Caratteristiche degli studi

Gli studi presi in considerazione sono stati pubblicati tra il 2003 e il 2022 e il numero di pazienti inclusi negli studi varia da 20 nello studio di Matsumoto et al. a 1199 nello studio di Boonen et al.; di 21 studi randomizzati controllati 16 erano in doppio cieco. È stata analizzata l’efficacia di 8 diversi trattamenti per osteoporosi: aledronato (=8), risedronato (=3), acido zoledronico (=3), ibandronato (=1), denosumab (=2). Teriparatide (=5), abaloparatide (=2) e romosozumab (=1); la maggioranza degli studi ha somministrato un placebo come controllo.

La durata media dei trattamenti è stata di 78 settimane e per quanto riguarda l’outcome primario tutti gli studi hanno riportato la misurazione della BMD, in particolare in 14 studi è stata analizzata la BMD del rachide lombare; l’incidenza di frattura è stata riportata in 16 studi ma soltanto 4 l’hanno considerata come outcome primario.

Effetti dei bisfosfonati versus placebo sulla BMD

Dieci studi su 2992 uomini con osteoporosi hanno comparato il trattamento con bisfosfonati rispetto al placebo, per una durata che è andata da 6 mesi a 3 anni.

Cinque studi, su 553 uomini con osteoporosi, hanno comparato l’alendronato al placebo evidenziando i seguenti risultati: l’alendronato ha significativamente aumentato la BMD del rachide lombare del 5.2%, dell’anca in toto dl 2.34% e del collo del femore del 2.53%. Due studi su 600 uomini con osteoporosi hanno analizzato i risultati del trattamento con risedronato vs placebo dopo 2 anni e il farmaco è risultato efficace su tutti i principali outcome analizzati, ad eccezione dell’incidenza di fratture. Nuovamente due studi, che hanno incluso un campione di 1707 uomini con osteoporosi trattati per due anni, hanno comparato l’acido zoledronico con il placebo. In particolare lo studio di Boonen et al. del 2012 ha riportato un significativo miglioramento della BMD del racide lombare e del collo del femore. Risultati molto simili sono stati osservati nel trattamento con ibandronato.

Effetti di altri trattamenti versus placebo sulla BMD

Due studi randomizzati controllati hanno analizzato l’efficacia del trattamento con denosumab rispetto al placebo per due anni, con iniezioni di 60mg di denosumab ogni 6 mesi. Un significativo aumento della BMD è stato osservato nel rachide lombare, con un aumento del 5.8%; significativo seppur minore nel femore in toto (2.28%) e un aumento di circa il 2% nel collo del femore.

Per quanto riguarda la teriparatide è stata paragonata al placebo in due studi su 309 uomini con osteoporosi con effetti positivi simili ai precedenti sia nella BMD del rachide lombare sia nel collo del femore.

Un solo studio è stato effettuato sull’analisi dell’efficacia del romosozumab rispetto al placebo, della durata di 12 mesi. A 163 pazienti è stata somministrata un’iniezione di 210 mg di romosozumab al mese e sono stati paragonati a 82 pazienti che hanno ricevuto il placebo; la variazione percentuale media della BMD rispetto al valore basale per il rachide lombare, il femore e il collo del femore è risultata significativamente maggiore nei pazienti che hanno ricevuto il farmaco rispetto al placebo.

Sono stati presi in analisi anche quattro studi che hanno messo a confronto due farmaci tra loro. Due di loro hanno comparato l’efficacia della teriparative versus aledronato, uno ha comparato la teriparatide al risedronato e l’ultimo ha comparato l’effetto dell’alendronato rispetto all’acido zoledronico. Nessuno di questi casi studio ha evidenziato delle differenze significative tra i vari gruppi; è stata stabilita la “non inferiorità” dell’acido zoledronico rispetto all’aledronato, ma non è stata dimostrata la sua superiorità.

Effetti sulle fratture

In 16 studi su 21 è stato riportato anche l’effetto del trattamento sull’incidenza di fratture, ma soltanto 4 di questi studi lo hanno definito il loro outcome primario. Il tasso di ogni nuova frattura vertebrale morfometrica è stato dell’1,6% nel gruppo acido zoledronico e del 4,9% nel gruppo placebo nel corso dei 24 mesi, con una riduzione del rischio del 67% con l’acido zoledronico.

Conclusioni

Questa meta-analisi sistematica fornisce le prove che alendronato, risedronato, acido zoledronico, ibandronato, denosumab, teriparatide abaloparatide e romosozumab hanno un effetto benefico sulla BMD del rachide lombare, dell’anca totale e del collo femorale di uomini affetti da osteoporosi paragonati all’effetto del placebo. Queste significative evidenze, tuttavia, riscontrano delle contraddizioni a causa del basso numero di studi inclusi nell’analisi ma soprattutto dall’eterogeneità inspiegabile osservata in alcuni confronti. È comunque sicuro affermare che l’osteoporosi maschile può essere trattata con le stesse terapie raccomandate per le donne con osteoporosi in postmenopausa.

L’osteomalacia

La mineralizzazione scheletrica avviene attraverso una serie di eventi che portano al deposito e al mantenimento di cristalli di idrossiapatite nella matrice ossea, in presenza di un pH appropriato e di specifiche strutture 3D. Oltre alle sue funzioni strutturali, la mineralizzazione ha un ruolo fondamentale nel metabolismo, regolando il microambiente delle cellule ossee e provvedendo costantemente all’apporto di minerali alla matrice extracellulare. La mineralizzazione non avviene in modo omogeneo in tutto lo scheletro dal momento che diverse tipologie di ossa mineralizzano diversamente in base alla loro funzione.

Questo complesso sistema è regolato dal sistema endocrino e paracrino e dalla disponibilità di minerali, in particolare calcio e fosforo; è un processo che inizia in fase prenatale e continua per tutta la vita dell’organismo.

Mentre l’osteomalacia è una malattia del metabolismo osseo caratterizzata da un’alterata mineralizzazione, l’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro che comporta una diminuzione della massa ossea e un’alterazione della micro- e microarchitettura ossea, con conseguente fragilità delle ossa. Entrambe le condizioni sono caratterizzate da quantità e qualità delle ossa e possono portare a una riduzione della loro resistenza, rendendole più inclini alla frattura. Quando sono combinate in un singolo paziente, concorrono indipendentemente da fragilità ossea.

L’obiettivo di questa review è quello di descrivere la patogenesi e le molteplici cause di mineralizzazione e le caratteristiche istopatologiche, cliniche e radiologiche dell’osteomalacia; saranno brevemente descritte le principali forme di osteomalacia ereditarie e acquisite e le possibilità terapeutiche odierne e future.

Fisiopatologia dei difetti di mineralizzazione e classificazione dei disordini della mineralizzazione

L’evento chiave della mineralizzazione è il deposito di cristalli di idrossiapatite nella matrice ossea. La regolazione di questo processo è a opera di fattori paracrini ed endocrini, osteoblasti, enzimi, disponibilità di substrato e, ovviamente, una bassa concentrazione degli inibitori della mineralizzazione.

I disordini della mineralizzazione sono classificati in “vitamina D – dipendenti” e “vitamina D – resistenti”, in base alla risposta del soggetto al trattamento con i metaboliti della vitamina D. Una carenza prolungata di vitamina D porta a un inadeguato apporto di calcio e fosfato, i due minerali principali presenti nel tratto intestinale che costituiscono il substrato della mineralizzazione. Questi due minerali possono venire a mancare anche in caso di disturbi da malassorbimento cronico come la malattia celiaca e la sindrome dell’intestino irritabile.

Aspetti istopatologici dell’osteomalacia

Sebbene l’osteomalacia possa essere il risultato di diversi meccanismi patogenetici, è caratterizzata da caratteristiche istologiche comuni. I segni istologici dell’osteomalacia compaiono se la causa che porta a un’alterata mineralizzazione persiste nel tempo. La sequenza di eventi formazione ossea-mineralizzazione-riassorbimento è il processo coordinato che si verifica in ogni unità di rimodellamento del tessuto scheletrico maturo, sia nei giovani che negli adulti, che richiede e fornisce i minerali dal e al compartimento extracellulare, rispettivamente. Classicamente riferita alle forme vitamina D-dipendenti, una classificazione di osteomalacia è stata attribuita all’evoluzione delle alterazioni ossee rilevate istologicamente. Nelle prime fasi del disordine del metabolismo minerale, gli attori chiave del processo di mineralizzazione, cioè ormoni ed enzimi, si adattano al fine di fornire allo scheletro una quantità sufficiente di minerali per formare e sostituire la matrice mineralizzata precedentemente riassorbita e per correggere eventuali anormalità.

Nello stadio precoce della malattia non si rilevano aberrazioni istopatologiche nello scheletro, ma possono essere presenti sintomi generali dovuti a un’anomalia metabolica sistemica (stadio I, o pre-osteomalacia). Se l’alterazione metabolica persiste e non può essere annullata da adattamenti metabolici, non si formano cristalli di idrossiapatite e la matrice non può essere mineralizzata.

L’accumulo progressivo di osteoide, insieme a una mineralizzazione residua, è tipico dello stadio II. Lo stadio III è la completa cessazione della mineralizzazione con una notevole quantità di osteoide, che corrisponde al tradizionale quadro istologico dell’osteomalacia conclamata. Dal punto di vista istomorfometrico, la formazione dell’osso è totalmente inibita, come dimostrato dall’assenza di captazione di tetraciclina, con diminuzione del volume osseo per volume di tessuto (BV/TV), aumento dello spessore, volume e superficie dell’osteoide (larghezza dei filamenti osteoidi >15 m). La quantità di osteoide è normalmente proporzionale al grado e alla durata del disordine del metabolismo minerale.

Manifestazioni cliniche e radiologiche

La definizione classica della malattia come “ammorbidimento del tessuto osseo” non rende esattamente l’idea di quella che è la malattia, poiché le deformità ossee, che si possono dedurre da questa definizione, non sono tipiche di uno scheletro osteomalacico, tranne che in alcune circostanze particolari, ma di solito rappresentano conseguenza di un rachitismo non adeguatamente trattato in un individuo in crescita. Quando le deformazioni ossee relative al rachitismo sono evidenti, la diagnosi sarà orientata verso un disordine di tipo congenito o precoce. I segni e i sintomi nella malattia lieve/precoce possono essere vaghi e non specifici, mentre l’osteomalacia conclamata è solitamente sintomatica e presenta caratteristiche muscolo-scheletriche distintive. In quest’ultimo caso, i pazienti affetti possono presentare dolore e tenerezza ossea generalizzati, portando spesso il paziente a un uso eccessivo e/o all’abuso di farmaci antinfiammatori.

Il dolore osseo diffuso dell’osteomalacia è dovuto all’idratazione della matrice non mineralizzata a livello del periostio, che attiva i nocicettori periferici. Il dolore è presente anche a riposo, ma peggiora con la postura eretta. L’aspecificità di questi segni e sintomi, che possono anche essere correlati a disturbi reumatologici (polimialgia, fibromialgia e spondilite anchilosante), può ritardare notevolmente la diagnosi e il trattamento appropriato. Poiché l’osso non mineralizzato è più fragile, possono verificarsi fratture spontanee dell’osso corticale, dette anche pseudofratture. Poiché sono il risultato clinico di una malattia sistemica, le pseudofratture appaiono come bande trasversali radiotrasparenti. Le pseudofratture sono più comuni nelle ossa portanti, come il femore prossimale e diafisario, il bacino e i metatarsi e sono spesso simmetriche e bilaterali, anche se possono verificarsi in modo asincrono nel tempo, essendo espressione di una malattia sistemica. Queste lesioni possono essere precedute da un dolore osseo localizzato. Per questi motivi, è consigliabile esaminare l’osso controlaterale quando si verifica una pseudofrattura.

Inoltre le vertebre osteomalaciche sono spesso indicate come “vertebre a merluzzo” nella radiografia della colonna vertebrale, a causa di una particolare deformità biconcava dei corpi vertebrali, che si distingue dalle classiche fratture da fragilità legate all’osteoporosi. I bordi superiori e inferiori delle vertebre osteomalaciche sono simmetricamente deformati. Data la natura metabolica della malattia, le vertebre contigue di solito mostrano forme biconcavali simili.

La scansione DXA (Dual Energy X-ray absorptiometry) dell’osso mostra di solito una diminuzione della densità minerale ossea (BMD) a causa della ridotta mineralizzazione. L’errore abituale è quello di interpretare i risultati di una bassa BMD solo come osteoporosi, che è un disturbo caratterizzato principalmente da un’alterazione della microarchitettura ossea, e può portare a una diagnosi e a un trattamento inappropriati. Al contrario, l’osteomalacia non è sempre associata a una bassa BMD, in quanto gli adulti con XLH possono mostrare valori di BMD più elevati a causa dell’entesopatia (BMD della colonna lombare) o indipendentemente da questa. La diminuzione della BMD dovuta a un difetto di mineralizzazione è almeno in parte reversibile con uno specifico trattamento di rimineralizzazione, indicando retrospettivamente la natura della malattia ossea.

Lo stato dentale dovrebbe essere scrupolosamente controllato. Sebbene l’osteomalacia non sia di per sé associata allo sviluppo di difetti dentali, una storia di carie multiple, perdita prematura dei denti o avulsioni spontanee, possono suggerire un disturbo congenito/geneticamente determinato (ipofosfatemia/ rachistismo/ osteomalacia).

Le forme più comuni dell’osteomalacia nella pratica clinica

L’osteomalacia acquisita può manifestarsi a tutte le età.

Nonostante l’uso diffuso di integratori di vitamina D, l’osteomalacia da carenza di vitamina D è ancora frequente in particolari categorie di pazienti, come ad esempio gli anziani provenienti da particolari ambienti geografici e culturali. Un ampio spettro di condizioni può essere associato a carenza di vitamina D: insufficiente esposizione alla luce solare, apporto dietetico inadeguato, abitudini culturali (uso del velo o dell’hijab), uso di creme solari, obesità patologica, sindromi da malassorbimento causate da diversi disturbi gastrointestinali e l’invecchiamento stesso con la diminuzione della produzione cutanea di vitamina D possono contribuire alla diminuzione dei livelli sierici di 25(OH)D. L’osteomalacia vitamina D-dipendente è piuttosto rara negli individui giovani provenienti da paesi industrializzati, mentre è ancora endemica in alcune regioni in base alle abitudini culturali e alla pigmentazione della pelle.

L’osteomalacia indotta da tumore (TIO) è una sindrome paraneoplastica caratterizzata da demineralizzazione grave e in rapida progressione causata da tumori mesenchimali di solito di piccole dimensioni che secernono un eccesso di FGF23, con conseguente ipofosfatemia dovuta alla perdita di fosfato. Di solito si manifesta nella quarta e quinta decade di vita e ha un decorso molto rapido che comporta una diagnosi spesso posticipata.

L’osteomalacia ereditaria è solitamente superata e preceduta da manifestazioni di rachitismo. L’ipofosfatemia/osteomalacia dominante legata all’X (XLH) è la forma più frequente di rachitismo. I segni di osteomalacia sono più evidenti negli adulti e coesistono con deformità degli arti portanti e anomalie dentali insorte però nel periodo infantile. Dolori ossei e articolari, rigidità articolare, dolore e debolezza muscolare e anomalie dell’andatura riducono la qualità della vita dei pazienti adulti.

La reale prevalenza negli adulti di questa malattia non è oggi nota, ma si suppone che sia molto sottostimata poiché questo disturbo può essere spesso interpretato erroneamente come una malattia reumatologica e non viene diagnosticato correttamente e tempestivamente.

Trattamento

Quando la carenza di vitamina D è la causa principale o contribuisce allo sviluppo dell’osteomalacia, l’integrazione con quantità adeguate di analoghi della vitamina D biologicamente inattivi (ad es. colecalciferolo, o vitamina D3) ripristinare l’omeostasi del calcio e dele del fosfato, correggere un eventuale iperparatiroidismo secondario sono le principali strategie di trattamento.

Quando l’osteomalacia è associata all’osteoporosi, la correzione del difetto di mineralizzazione deve sempre precedere la terapia antiriassorbitiva.

Nell’osteomalacia ipofosfatemica ereditaria, la pratica standard è la somministrazione di sali di fosfato insieme al calcitriolo, per evitare l’iperparatiroidismo secondario.Sebbene questo trattamento sia obbligatorio nei bambini per evitare deformità rachitiche, la somministrazione di sali di fosfato, scarsamente tollerati e associati a importanti effetti collaterali a breve e a lungo termine, è stata messa in discussione negli adulti.

Ad oggi, la diagnosi di osteomalacia è principalmente clinica; la valutazione sistematica della qualità dell’osso nell’osteomalacia, al fine di trovare modelli specifici di questa malattia, aiuterebbe a perfezionare la diagnosi radiologica. Infatti il punteggio osseo trabecolare (TBS), un indice per dedurre la microarchitettura ossea nelle immagini DXA, potrebbe aiutare a differenziare l’osteomalacia dall’osteoporosi in tempi più rapidi.

Biomarcatori più specifici delle malattie (microRNA, vescicole extracellulari) potrebbero essere studiati per trovare modelli specifici nell’osteomalacia; inoltre, gli esiti a medio e lungo termine di terapie specifiche (ad esempio burosumab e asfotasi alfa) devono ancora essere valutati in studi reali a lungo termine.

Denosumab vs Romosozumab in uno studio giapponese

Il Giappone vanta una delle aspettative di vita più alte al mondo, oltre gli 80 anni; tuttavia è necessario tenere in considerazione che superati i 70 anni la maggior parte delle persone ha bisogno di assistenza medica, e una delle malattie che condiziona maggiormente la qualità di vita delle persone anziane è l’osteoporosi e la fragilità ossea che ne consegue.

Questo studio retrospettivo è andato a valutare la densità minerale ossea (BMD) come indice per la comparazione tra l’efficacia del trattamento con denosumab e quello con romosozumab, con un aumento della BMD che sta a significare una maggior prevenzione delle fratture da fragilità ossea. 69 pazienti con osteoporosi postmenopausale sono stati trattati con denosumab (60 mg sottocutanei ogni 6 mesi) e romosozumab (210 mg sottocutanei una volta al mese) per 12 mesi, alla diagnosi presentavano una o più fratture vertebrali, del bacino o del femore e un T-score della BMD nelle suddette localizzazioni inferiore a -2.5 misurato con DXA. Inoltre ai pazienti con valori di 25OHD più bassi è stata raccomandata l’assunzione di integratori commerciali a base di vitamina D3 e calcio.

Risultati

Come esito primario è stato valutato il cambiamento rispetto alla baseline nella BMD della spina dorsale, misurandola con DXA a 6 e 12 mesi; rispettivamente è stato osservato un incremento del 6.0% ± 4.1 e del 7.2% ± 4.3 nei pazienti trattati con denosumab e un incremento del 7.4 ± 1.7 e del 12.5% ± 2.4 nel gruppo di pazienti a cui è stato somministrato romosozumab. Per quanto riguarda la BMD in particolare della zona lombare è significativamente aumentata nel gruppo romosozumab rispetto al gruppo denosumab sia a 6 che a 12 mesi.

L’esito secondario interessava il cambiamento della BMD del bacino, misurata con DXA dopo 6 e 12 mesi e paragonata al livello basale. I gruppi denosumab e romosozumab hanno mostrato rispettivamente un aumento del 2.4% e 3.4% e un aumento del 3.4% e 6.0%, similmente ai dati ottenuti nella misurazione della BDM del collo del femore. Per entrambi i trattamenti i risultati confrontati con il livello basale alla diagnosi si sono rivelati significativi, con un P value inferiore a 0.01.

Un altro fattore molto importante nella valutazione dell’osteoporosi e che è stato valutato in questo studio è la presenza dei marker di turnover osseo nel siero, in particolare P1NP e TRACP. Per quanto riguarda i livelli sierici di P1NP dei pazienti trattati con denosumab sono significativamente diminuiti già dopo 6 mesi (-63.1%) e dopo 12 mesi (-68%) se paragonai ai livelli alla diagnosi. Per quanto riguarda i pazienti trattati con romosozumab, i livelli di P1NP si sono invece alzati dopo 6 mesi (5-9%) per poi normalizzarsi nell’analisi dei 12 mesi (-5.6%). Per quanti riguarda il marker TRACP i livelli sierici si sono abbassati in entrambi i gruppi in analisi: dopo 6 e 12 mesi rispettivamente -56.0% e -60.5% rispetto ai livelli basali nei pazienti trattati con denosumab e -32.1% e -42.9% in quelli trattati con romosozumab.

Eventi avversi

Reazioni avverse nel sito di iniezione si sono verificate con maggior frequenza nella somministrazione di romosozumab, ma non sono state ritenute sufficienti per interrompere il trattamento. Due pazienti per ogni gruppo ha subito una nuova frattura vertebrale durante il trattamento, diagnosticata tramite regolare imaging con raggi X.

Conclusioni

Il presente studio ha rilevato che i tassi di aumento della BMD della colonna lombare, dell’anca totale e del collo del femore si sono rivelati significativamente più alti con romosozumab che con denosumab dopo un periodo di trattamento di 12 mesi, con pochi effetti avversi gravi per entrambi i farmaci.

Tre fattori sono coinvolti nell’aumento della BMD:

  • la chiusura iniziale dello spazio di rimodellamento osseo
  • il successivo aumento della mineralizzazione
  • il contributo costante della formazione ossea basata sulla modellazione.

Soprattutto nel rimodellamento osseo, la transizione dei marcatori del metabolismo osseo influisce sulla dimensione della finestra anabolica a causa della differenza tra i livelli dei marcatori di formazione ossea e quelli di riassorbimento osseo. Il denosumab sopprime fortemente il riassorbimento osseo, che a sua volta inibisce anche la formazione ossea. Al contrario, romosozumab promuove la formazione ossea e sopprime il riassorbimento osseo determinando una finestra anabolica più ampia e presumibilmente un effetto maggiore sull’aumento della densità ossea. In questo studio, denosumab ha ridotto sia il marcatore di formazione ossea che quello di riassorbimento osseo, mentre il marcatore di formazione ossea non è diminuito per 12 mesi e solo il marcatore di riassorbimento osseo è diminuito per romosozumab. Di conseguenza, abbiamo confermato che si fosse creata una finestra anabolica più ampia. Nel complesso, i considerevoli effetti di romosozumab sul rimodellamento e sulla modellazione ossea sembrano più efficaci per aumentare i livelli di densità ossea rispetto a denosumab, e i risultati clinici primari e secondari dello studio confermano la teoria.

Come punto degno di nota, i bassi livelli di vitamina D nella coorte non sono circostanze uniche in Giappone; infatti è noto che approssimativamente il 90% dei pazienti giapponesi soffrono di una carenza da vitamina D come complicanza dell’osteoporosi.

 

Trattamenti a lungo termine per l’osteoporosi postmenopausale

L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una bassa densità minerale ossea (BMD) e dal deterioramento dell’architettura ossea, con conseguente riduzione della resistenza delle ossa e, di conseguenza, una maggiore predisposizione alle fratture. La manifestazione clinica dell’osteoporosi è una frattura da fragilità ed è lecito dire che circa l’80% di tutte le fratture sono correlate all’osteoporosi. Poiché le fratture sono associate a una diminuzione della qualità della vita e a un aumento della mortalità prematura, della disabilità e dell’onere finanziario, è importante identificare i soggetti ad alto e altissimo rischio di frattura e fornire loro adeguate opzioni terapeutiche, cosa che purtroppo non sempre avviene nella maniera e nei tempi corretti.

Questo studio affronta il modo migliore per utilizzare le opzioni farmacologiche disponibili per l’osteoporosi postmenopausale al fine di fornire una protezione dalle fratture per tutta la vita nelle pazienti ad alto e altissimo rischio di frattura.

Pazienti ad alto rischio di frattura

Il primo passo consiste nell’identificare i pazienti ad alto o altissimo rischio di frattura. Gli strumenti prognostici, tra i quali il Fracture Risk Assessment Tool (FRAX) è il più utilizzato, sono disponibili per identificare i soggetti ad alto rischio di fratture osteoporotiche e per assistere i medici nelle decisioni sulla procedura da seguire. Esistono diverse linee guida per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale, per esempio la Società Coreana per la ricerca sulle ossa e i minerali raccomanda il trattamento in base a parametri ben definiti basati sull’età e sul livello di BMD; le linee guida nazionali per l’osteoporosi in Gran Bretagna applicano allo stesso modo dei parametri età-specifici, partendo da una soglia di intervento inferiore basata su una donna in menopausa con indice di massa corporea medio, con una precedente frattura da fragilità, nessun fattore di rischio aggiuntivo e senza conoscenza della BMD.

Pazienti ad altissimo rischio di frattura

Alcuni autori hanno suggerito di migliorare la capacità predittiva del FRAX per i pazienti a rischio di frattura molto elevato integrando caratteristiche delle fratture pregresse (numero, sede e tempo dalla precedente frattura). Poiché il numero, la localizzazione e il tempo intercorso dalla frattura precedente sono associati a un aumento del rischio di una seconda frattura, gli aggiustamenti verso l’alto del rischio di frattura in individui con fratture multiple, MOF o fratture pregresse recenti (entro 2 anni) migliorano il FRAX, mantenendo la probabilità a 10 anni come modello migliore. Sempre in Corea esiste un punteggio per identificare le donne ad altissimo rischio di frattura. In uno studio di coorte a livello nazionale con un’ampia popolazione rappresentativa di un una banca dati convalidata, i tre più importanti fattori di rischio di frattura osteoporotica erano l’età avanzata, l’anamnesi di una recente fragilità (entro 2 anni) e l’uso recente di glucocorticoidi orali (>30 giorni nell’ultimo anno). L’algoritmo, tra l’altro, è disponibile per l’autovalutazione in un calcolatore basato sul web (http://www.nhis.or.kr) senza misurazioni della BMD.

Recenti raccomandazioni terapeutiche

La Endocrine Society ha recentemente pubblicato una linea guida di pratica clinica sulla gestione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa, in cui vengono proposte le seguenti raccomandazioni:

  • Nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture, si consiglia il trattamento iniziale con bifosfonati (alendronato, risedronato, acido zoledronico e ibandronato) o denosumab come trattamento iniziale alternativo, per ridurre il rischio di fratture.
  • Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di frattura, come quelle con fratture vertebrali gravi o multiple, si raccomanda la teriparatide per un massimo di 2 anni per la riduzione delle fratture vertebrali e non vertebrali.
  • Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di frattura, come quelle con fratture vertebrali gravi o multiple e che presentano un T score molto basso <-2,5 si raccomanda il trattamento con romosozumab per per un periodo massimo di 1 anno per la riduzione delle fratture vertebrali, dell’anca e non vertebrali.

Studi recenti hanno documentato la superiorità degli agenti di formazione ossea (teriparatide [TPTD] o romosozumab) rispetto agli antiriassorbitivi (risedronato o alendronato) per ridurre le fratture nelle donne in postmenopausa ad altissimo rischio di frattura.

Meccanismo d’azione dei farmaci

I bisfosfonati (BP) riducono la funzionalità degli osteoclasti inibendo la farnesil pirofosfato sintasi (FPPS) impedendo così la prenilazione delle piccole proteine GTPasi. Ciò comporta l’interruzione dell’organizzazione citoscheletrica, perdita del bordo di membrana frastagliato e alterazione del traffico vescicolare. Inoltre, nonostante gli osteoclasti vadano naturalmente incontro ad apoptosi, questo processo è notevolmente accelerato negli osteoclasti esposti ai BP. I BP si legano ai minerali ossei e vengono internalizzati dagli osteoclasti maturi nei siti di riassorbimento osseo; i BP possono rimanere legati al minerale osseo anche per molti anni dopo l’interruzione della terapia, per questo motivo continuano per un certo periodo a mantenere l’azione farmacologica nonostante non vengano più somministrati. Nonostante gli osteoblasti non siano generalmente considerati un bersaglio dell’inibizione dei BP, gli esperimenti in vitro hanno dimostrato che l’inibizione di FPPS negli osteoblasti può spiegare la risposta anabolizzante dell’osso all’ormone paratiroideo (PTH), osservata dopo l’esposizione cronica all’ormone ai BP nei ratti.

Per quanto riguarda denosumab (DMAB), si tratta di un anticorpo monoclonale umano che inibisce il riassorbimento osseo neutralizzando con una forte affinità e specificità l’attivatore del recettore del ligando kB del fattore nucleare (RANKL), un mediatore chiave nella differenziazione, funzione e sopravvivenza degli osteoclasti. A differenza dei BP, il DMAb inibisce l’attività degli osteoclasti in tutti gli stadi di sviluppo (prefusione, multinucleazione e riassorbimento), facilitando l’accesso al rimodellamento osseo. Il DMAb non viene incorporato nell’osso, di conseguenza, il suo effetto sul riassorbimento osseo cessa rapidamente dopo l’interruzione del trattamento.

La durata appropriata della terapia antiriassorbitiva (BPs o DMAb) è diventata un argomento di discussione, a causa delle preoccupazioni circa il rischio di interruzione del trattamento per osteonecrosi della mascella (ONJ) e frattura atipica del femore (AFF); si è infatti cominciato a parlare di “vacanze farmacologiche” (interruzione del trattamento).

Rischi e benefici

Studi osservazionali basati su registri e rapporti post-marketing basati su milioni di pazienti sottoposti alla somministrazione clinica a lungo termine, hanno associato alcuni eventi avversi rari, precedentemente sconosciuti, all’uso di antiriassorbitivi; questi rischi rari dovrebbero sempre essere integrati in una prospettiva globale tenendo conto dei benefici della terapia farmacologica a lungo termine dell’osteoporosi. In donne in postmenopausa con osteoporosi precedentemente trattata con BP orali (alendronato per una durata media di 6-2-6,4 anni), fratture atipiche del femore (AFF) si sono verificate in una su 321 pazienti in transizione verso l’acido zoledronico (5 mg, per via endovenosa) e in due pazienti su 322 che sono passate a DMAB nell’arco di 1 anno. La transizione a un antiriassorbitivo più potente in pazienti precedentemente trattati con BP a lungo termine potrebbe impedire la clearance dei BP accumulati dalla matrice ossea e aumentare il rischio di AFF; questa possibilità dovrebbe essere valutata in una popolazione molto più ampia che passa dai BP orali all’acido zoledronico o al DMAb per via endovenosa.

Gli esperti propongono quindi una strategia “treat-to-target” in cui viene definito un obiettivo specifico per raggiungere una totale prevenzione di fratture nel lungo termine, personalizzando la terapia andando eventualmente a cambiarne le condizioni adattandosi alla risposta del paziente.

Le linee guida della Endocrine Society raccomandano che le donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture continuino la terapia BP senza interruzione, pur rimanendo ad alto rischio di frattura dopo 3-5 anni di terapia. È stato infatti visto in diversi casi clinici che pazienti sottoposti a interruzione dei BP hanno avuto un incremento dal 20 al 40% di rischio di fratture, e raddoppiato il rischio di fratture vertebrali, indicando che queste drug holidays potrebbero non essere sicure per tutti pazienti.

Nonostante la mancanza di prove a lungo termine, bisognerebbe approcciare l’osteoporosi in modo simile alle condizioni croniche come l’ipertensione e il diabete, di cui c’è la sicurezza per un trattamento a lungo termine.

 

Chirurgia orale in pazienti medicalmente compromessi

L’aumento dell’età media aumenta la diffusione degli impianti dentali nei pazienti anziani.  L’aumento dell’aspettativa di vita comporta l’insorgenza di numerose patologie nei pazienti, che possono anche indirettamente incidere negativamente sull’esito di impianti dentali chirurgici, compromettendone la completa guarigione o influenzando la salute della zona peri-implantare.

Non è ancora chiaro quali misure preventive vadano prese nei confronti pazienti in procinto di sottoporsi ad impianto dentale con comorbilità, ma sicuramente l’identificazione dei potenziali eventi avversi e complicanze può aiutare nel processo di decisione.

In questo articolo vengono presi in considerazione i fattori di rischio più comuni e ne viene illustrato l’approccio medico in merito alle complicazioni che possono insorgere nel procedere con un impianto dentale.

Di seguito, brevemente, alcuni tra i fattori di rischio presi in analisi.

  • Fumo: è ormai noto che gli effetti della nicotina e di altri componenti del tabacco hanno effetti negativi sul metabolismo osseo, e anche sul processo di ossificazione che segue l’impianto dentale. Gli effetti della nicotina sono dose-dipendenti, ed è stato dimostrato che i forti fumatori hanno un rischio tre volte superiore di rigettare un impianto, oltre ad una significativa perdita di densità ossea che nella mascella rende ancora più difficoltosa l’operazione. Le raccomandazioni cliniche non sono definitive sull’impossibilità di procedere con l’impianto dentale, ma sicuramente è fortemente consigliata l’interruzione definitiva dell’assunzione di nicotina.
  • Diabete: caratterizzato da iperglicemia, il diabete è uno dei disturbi metabolici più comuni e in crescita ed è importante fare alcune valutazioni prima di procedere all’impianto in un paziente diabetico. Per quanto non esistano controindicazioni, l’iperglicemia induce infiammazione cronica con ripercussioni negative sull’osteointegrazione. Non è stata dimostrata una significativa differenza nella durata di un impianto tra pazienti diabetici e pazienti sani; tuttavia, è importate mantenere la glicemia sotto stretto controllo nel periodo precedente all’operazione, e i tempi di guarigione possono essere leggermente più lunghi.
  • Osteoporosi: si tratta di una condizione in cui la densità minerale ossea (BMD) è significativamente compromessa, complisce prevalentemente le donne in particolare nella condizione post-menopausale. Il successo di un impianto e dell’osteointegrazione è strettamente correlato alle condizioni di salute della mascella e della mandibola per cui la condizione di osteoporosi di un paziente non può essere sottovalutata.
  • Radioterapia: il 30-40% delle radiazioni vengono assorbite dall’osso a causa della sua grande componente di calcio; gli effetti di questo assorbimento sono un incremento dell’attività degli osteoclasti e contemporaneamente una riduzione delle funzioni degli osteoblasti. Il mancato equilibrio nel metabolismo osseo che si viene a creare è spesso causa di fratture della mascella e di aumento delle trabecole ossee. Anche in questo caso l’effetto è dose-dipendente, e la quantità di radiazioni a cui è sottoposto il paziente sembra incidere sul rischio di sviluppare osteonecrosi in seguito all’impianto.
  • Alcolismo: diversi studi sugli animali hanno valutato una significativa diminuzione del volume delle trabecole ossee, una diminuzione della mineralizzazione e della formazione della matrice ossea in ratti esposti cronicamente a sostanza alcoliche. Nell’uomo che abusa di alcol è stata dimostrata una disfunzione nell’attività degli osteoblasti primari e nella loro proliferazione, favorendo invece l’attività di riassorbimento osseo. Si rende quindi necessaria un’analisi della correlazione tra alcolismo e riassorbimento osseo pero-implantare.

L’autore dell’articolo, il Dott. Gregorio Guabello, ci spiega nel dettaglio in questo video come l’assunzione di farmaci anti-riassorbitivi possa influenzare l’esito di un impianto dentale.

Da teriparatide ad anti-riassorbitivi: efficacia del trattamento sequenziale

La teriparatide (TPT) è un analogo dell’ormone paratiroideo che va a stimolare la formazione di materiale osseo attivando gli osteoblasti e incrementando l’assorbimento di calcio. Il trattamento con TPT è noto per ridurre il rischio di fratture vertebrali e non, aumentando al contempo la densità minerale ossea (BMD) di tutto lo scheletro, in particolar modo di vertebre, femore e bacino. Le controindicazioni di questa terapia sono che può essere assunta al massimo per 24 mesi e i pazienti non possono sottoporsi a più di un ciclo di TPT nel corso di tutta la loro vita.

Per questo motivo da anni si cerca un farmaco che vada a sostituire questo trattamento ed è ormai consolidato l’uso dei farmaci anti-riassorbitivi come i bisfosfonati (BP) e il denosumab (Dmab) che riducono sensibilmente il rischio di fratture specialmente nelle donne in post-menopausa.

Questa review ha lo scopo di valutare gli effetti di un trattamento sequenziale che prevede, dopo la sospensione di TPT, un trattamento con zoledronato (ZOL) o Dmab andando a misurare la densità minerale ossea delle vertebre lombari, collo del femore e bacino, oltre ai livelli di minerali nel sangue in pazienti con osteoporosi e grave fragilità ossea.

Struttura dello studio

Questo studio retrospettivo ha valutato pazienti con grave osteoporosi e fragilità ossea, i quali erano in cura per osteoporosi all’IRCCS Galeazzi di Milano. Nel dettaglio i criteri di inclusione sono stati i seguenti:

  • Trattamento con TPT per 24 mesi per secondo la nota 79 di AIFA
  • Trattamento con almeno due dosi di ZOL 5mg endovena
  • Trattamento con almeno tre dosi di Dmab 60 mg sottocutaneo

I pazienti sono stati valutati all’inizio del loro ciclo di TPT, dopo 24 mesi di TPT, e dopo altri 24 mesi di trattamento con ZOL o con Dmab. La densità minerale ossea che è oggetto della valutazione è stata misurata per vertebre lombari, collo del femore e bacino utilizzando la tecnologia DEXA.

Risultati

Per questo studio sono stati reclutati 56 pazienti con grave osteoporosi e fragilità ossea, con almeno una frattura vertebrale alle spalle, di cui 50 erano donne in post-menopausa e 6 uomini; sono stati divisi in due gruppi: uno da 23 pazienti (età media 74,3 anni) che hanno proseguito la terapia con ZOL e l’altro da 33 pazienti (età media 65 anni) che hanno proseguito la terapia con Dmab.

Il trattamento con ZOL a seguito della precedente TPT ha portato ad un incremento del T-score lombare da una media di -2,37 dopo TPT ad una media di -2,11 dopo ZOL nel 53% dei pazienti, mentre il T score è rimasto costante solo nel 16%.

Per quanto riguarda il secondo gruppo di pazienti, il T-score lombare è passato da una media di -3,14 a -2,53.

Il T-score del collo del femore e del bacino non è aumentato significativamente né col trattamento con zoledronato né con denosumab, anche se nei pazienti con un T-score estremamente basso si è visto un incremento interessante rispettivamente nella BMD del bacino e del collo del femore.

Fratture da fragilità ossea si sono verificate nel 13% dei pazienti trattati con TPT+ZOL e nel 15% dei pazienti trattati con TPT+Dmab.

Conclusioni

Questo studio retrospettivo ha confermato che il proseguimento della terapia per osteoporosi con farmaci anti-riassorbitivi (ZOL e Dmab) porta ad un incremento significativo del T-score della BMD nelle vertebre lombari e nel bacino per i pazienti più gravi.

È noto che l’interruzione della teriparatide causa una graduale diminuzione della BMD, ma essendo questa interruzione  necessaria, è evidente la necessità di trovare un trattamento conservativo che preservi la BMD acquisita sotto l’effetto anabolizzante della TPT. In questo studio l’effetto indotto dal trattamento TPT+ZOL sulle vertebre lombari è simile a quello ottenuto con TPT+Dmab quindi no né ancora chiaro quale sia la miglior opzione.

Non si può trascurare il fatto che, in questo studio, i pazienti con più basso T-score del collo del femore hanno riscontrato un migliore effetto dopo il trattamento con ZOL rispetto a quelli il cui valore basale erano meno critico. Allo stesso modo, i pazienti con un basso T-score dell’anca a livello basale sono andati incontro ad un incremento ancora maggiore dopo il trattamento con Dmab rispetto a quelli con punteggi basali più elevati, dimostrando che entrambi i trattamenti sono stati efficaci anche nel sito femorale, pur richiedendo un livello di partenza più grave.

Alimentazione e salute delle ossa

Uno studio del 2021 di Rizzoli et al. ha raccolto i dati in letteratura sull’effetto che l’alimentazione ha sulla salute delle ossa, e ha valutato quali nutrienti influenzino maggiormente il metabolismo osseo e il rischio di frattura.

Negli adulti si assiste progressivamente ad una perdita fisiologica di massa ossea, che nelle donne è maggiormente evidente nel periodo post-menopausa portando molto spesso ad osteoporosi e a rischio di fratture. I fattori genetici contribuiscono fortemente al “ picco” di densità ossea che si raggiunge durante la giovane età e che va poi diminuendo gradualmente, ma questo fenomeno è influenzato anche da fattori ambientali e nutrizionali.

Di seguito i nutrienti che sono stati considerati nello studio, le loro proprietà e quantità consigliate.

CALCIO

È noto che il calcio sia fondamentale per un buon metabolismo osseo, e soprattutto nella prima infanzia se ne consiglia l’assunzione tramite il latte. Le quantità consigliate di questo minerale sono 800-1200 mg al giorno, maggiore è la quantità più velocemente durante il periodo della crescita aumenterà la massa ossea. Non è solo il metabolismo osseo a cambiare con l’avanzare dell’età, ma anche il metabolismo energetico subisce dei cambiamenti e il calcio è tra quei nutrienti che le persone anziane fanno più fatica ad assorbire a livello intestinale e renale, ma se assunto insieme a vitamina D è un ottimo alleato contro il rischio di fratture.

MAGNESIO

420 mg negli uomini e 320 mg nelle donne è la dose giornaliera consigliata per l’assunzione di questo minerale. Oltre ad essere di forte giovamento per il sistema neurologico il magnesio infatti ha dimostrato degli effetti protettivi anche sulle ossa; la sua assunzione, oltre agli integratori, proviene principalmente da noci, verdura a foglia verde e latticini.

FOSFORO

Protagonisti sono sempre i latticini, per il loro apporto di fosforo fondamentale per la mineralizzazione delle ossa; è possibile assumere questo nutriente anche da carne, grano e noci. Nonostante non abbiano trovato degli studi che dimostrino il suo effetto protettivo nei confronti delle fratture ossee, anche del fosforo c’è una dose raccomandata che è di 700 mg negli adulti e 1250 mg al giorno negli adolescenti.

VITAMINE

È stato osservato che l’assunzione di multivitaminici ha un effetto protettivo nei confronti delle ossa, riducendo sino al 50% il rischio di frattura. Vediamo nel dettagli quali sono le caratteristiche delle principali vitamine che contribuiscono ad un buon equilibrio nel metabolismo osseo.

  • vitamina D: in pole position non poteva che esserci lei, l’unica vitamina che il nostro corpo è in grado di sintetizzare, al contrario delle altre che devono essere per forza assunte con l’alimentazione o il supporto di integratori. Infatti l’esposizione ai raggi solari induce il nostro organismo a produrre questa vitamina, che riduce considerevolmente il rischio di frattura solo se accompagnata da una adeguata assunzione di calcio.
  • vitamine gruppo B: non solo non esistono studi che dimostrino i loro effetti benefici sulle ossa, al contrario è stato osservato che alte dosi di vitamina B6 e B12 possono favorire le fratture del femore.
  • vitamina C: una dieta ricca di vitamina C è associata ad un benessere generale che comprende anche la salute delle ossa, particolarmente salvaguardata dall’assunzione di questa vitamina insieme alla vitamina K.

CAFFEINA E TEINA

Purtroppo è stato osservato che il caffè ha un effetto negativo sulla densità ossea di tipo dose-dipendente, e riguarda principalmente il sesso femminile. Al contrario il tè, ricco in flavonoidi, se assunto quotidianamente aumenta la densità ossea in diversi siti del sistema scheletrico.

FRUTTA E FIBRE

La presenza di prebiotici all’interno di alimenti ricchi di fibre migliora fortemente l’equilibrio del microbiota intestinale, che sappiamo essere responsabile della buona salute del nostro organismo e, in particolare negli anziani, favorendo l’assorbimento dei nutrienti prima citati migliora moltissimo la densità ossea.

 

Vescicole extracellulari e metabolismo osseo

Le vescicole extracellulari (EV) sono piccole vescicole con una doppia membrana fosfolipidica, prodotte dalla maggior parte dei tessuti cellulari allo scopo di veicolare il proprio contenuto a determinati target. È stata dimostrata la presenza di EV in tutti i fluidi corporei e tessuti organici, compreso l’osso dove contribuiscono a regolarne il metabolismo.

Tipologia di vescicole extracellulari

Sulla base delle loro dimensioni possiamo distinguere tre tipologie di vescicole extracellulari: esosomi, microvescicole (MV) e copri apoptotici.

Gli esosomi sono un gruppo di vescicole con dimensioni da 40 a 160nm, la cui formazione avviene in tre passaggi: 1) invaginazione della membrana plasmatica a formare l’endosoma; 2) invaginazione della membrana endosomica a formare un multi vesicular body (MVB); 3) fusione dei MVB con la membrana cellulare e conseguente rilascio degli esosomi all’esterno.

Le microvescicole hanno dimensioni comprese tra i 50 nm e 1um e prendono origine dalla membrana plasmatica tramite gemmazione verso l’esterno.

Infine i corpi apoptotici si formano in seguito alla frammentazione della cellula dopo il processo di apoptosi, e hanno dimensioni comprese tra 0,5 e 4 um.

Una volta raggiunto il target le EV possono indurre una risposta in due modi: attivando i recettori di membrana oppure rilasciando nel citoplasma il proprio contenuto (proteine, fattori di trascrizione, acidi nucleici, lipidi).

Vescicole extracellulari e metabolismo osseo

Come in ogni tessuto si possono trovare EV secrete da ogni tipo di cellula presente, ma prendiamo in considerazione solo le vescicole secrete da osteoblasti (OB) osteoclasti (OC) e osteociti.

Le cellule staminali del midollo osseo (BMSC) giocano un ruolo fondamentale nel differenziamento osteoblastico, sia come precursori che come mediatori attraverso le secrezioni di EV regolatorie che, endocitate dagli OB, promuovono l’osteogenesi. In particolare vengono coinvolti i miRNA che una volta trasferiti agli OB inducono l’espressione di geni chiave come RUNX2 e ALP, promuovendo il differenziamento e l’osteogenesi. Uno studio in vitro recente ha dimostrato l’effetto di un particolare lncRNA, il MALAt1, rilasciato dagli esosomi estratti da BMSC umane primarie. In co-coltura con OB, il MALAT1 rilasciato va a inibire il miR-34c promuovendo il differenziamento tramite up-regolazione di SATB2; una volta differenziati gli OB sono grandi produttori di vescicole attive nella regolazione del processo di osteogenesi.

I corpi apoptotici hanno un ruolo anch’essi nel rimodellamento osseo e in particolare nella comunicazione tra osteoblasti e osteoclasti. Una volta morti, in seguito per esempio ad assunzione di bisfosfonati, gli OC rilasciano corpi apoptotici ricchi di RANK che, legandosi a RANKL sulla membrana degli OB, induce un reverse signaling stimolandone la sopravvivenza e il differenziamento.

Sebbene siano gli OB e gli OC le cellule ossee maggiormente studiate, anche gli osteociti, regolatori del rimodellamento osseo, rilasciano EV in seguito a stimoli biochimici e meccanici.

EV e le metastasi ossee

Lo scheletro è uno degli organi maggiormente coinvolti nella formazione di metastasi da tumori primari, in particolare quelli che metastatizzano nel tessuto osseo con più frequenza sono quelli di mammella, prostata e polmone.

In condizioni di salute il riassorbimento della matrice ossea da parte degli osteoclasti è bilanciato dall’attività degli osteoblasti che producono nuovo tessuto. In presenza di metastasi a venire a mancare è proprio questo equilibrio, verificandosi due possibili scenari:

  • Si crea una lesione osteolitica nella quale è l’attività degli OC a prevalere andando a riassorbire tessuto osseo
  • Si crea una lesione osteosclerotica, nella quale prevale la formazione di nuovo tessuto osseo

Le EV sono coinvolte nel processo di metastatizzazione; con il loro carico di proteine e acidi nucleici, possono contribuire aumentando il potere metastatizzante delle cellule tumorali, oppure possono favorire la formazione della metastasi vera e propria promuovendo la creazione di una “nicchia premetastatica” nel tessuto bersaglio attraverso un’azione paracrina. Questi meccanismi avvengono nel tessuto osseo come negli altri tessuti, alterando il comportamento delle cellule residenti creando un’ambiente ideale alla formazione di lesioni secondarie.

Tra i tipi di EV coinvolti, gli esosomi rilasciati dalle cellule cancerose della prostata sono in grado di inibire il differenziamento degli OC bloccando il pathway NF-kB attraverso il miR-214; allo stesso tempo promuovono l’osteogenesi velocizzando il differenziamento degli OB, andando quindi a creare una massa tumorale secondaria. Per quanto riguarda invece le metastasi di natura osteolitica tipiche del tumore al polmone, le EV svolgono al contrario un ruolo pro-osteoclastogenico. Infine le EV rilasciate dalle cellule tumorali del cancro al seno agiscono direttamente sugli OB riducendone il numero e l’attività, promuovendo al contrario il differenziamento degli OC; inoltre parallelamente sono in grado di modulare l’incremento dell’angiogenesi.

EV e invecchiamento

Durante l’invecchiamento l’equilibrio fisiologico tra osteoblasti e osteoclasti diventa meno efficiente, e a prevalere è l’attività degli OC portando alla riduzione di massa ossea e all’aumento del rischio di fratture, tipica dell’osteoporosi senile.

Anche le vescicole extracellulari si modificano nel processo di senescenza e possono causare delle alterazioni nel crosstalk tra le due popolazioni cellulari del tessuto osseo, le quali sono negativamente influenzate dai miRNA rilasciati dalle EV che coinvolgono il rimodellamento osseo. In particolare il miR-214 rilasciato dagli esosomi viene internalizzato dagli OB dove ne riduce fortemente l’attività, causando la perdita di massa ossea e conseguenti fratture in donne anziane.

Applicazioni cliniche delle EV

Nella ricerca scientifica le vescicole extracellulari sono fortemente studiate perché hanno un grande potenziale clinico, grazie allo sfruttamento del loro cargo naturale ma soprattutto alle modifiche che è possibile apportare ad esso per veicolare determinati farmaci. Infatti il loro utilizzo migliore è quello di drug delivery, veicolando farmaci in maniera selettiva sul target grazie alle modifiche apportabili non solo, come precedentemente detto, al loro contenuto ma anche alla loro membrana rendendola specifica per un determinato recettore.

In recenti studi sugli animali è stato visto che le EV di cellule staminali derivanti da cordone ombelicale umano o da tessuto adiposo hanno una grande efficacia nella promozione dell’osteogenesi in modelli di osteoporosi, osteonecrosi e frattura, rappresentando quindi una valida alternativa al trapianto di cellule staminali per la rigenerazione ossea.

Naturalmente lo sviluppo di protocolli e linee guida per l’utilizzo delle EV nelle terapie è ancora in corso, tra le maggiori difficoltà che si incontrano c’è la loro purificazione e la loro breve emivita una volta in circolo, oltre che la loro tendenza ad accumularsi in fegato e polmoni.

Densità ossea e viaggi nello spazio

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Al fine di comprendere maggiormente quali effetti un tempo nello spazio, più o meno prolungato, possa avere sullo stato di salute delle ossa, in uno studio recente di Shi et al. sono stati inviati 20 topi alla Stazione Spaziale Internazionale, un vero e proprio laboratorio internazionale che orbita a 400km dalla superficie terrestre.

Gli studi che sono stati fatti al loro ritorno sulla Terra interessavano il microbiota intestinale e la densità minerale ossea (BDM), entrambi risultati alterati dopo “soggiorno” nello spazio.

Cosa succede nello spazio?

Già da molti anni è noto il fenomeno per cui gli astronauti perdono tra l’1 e il 2% della densità ossea per ogni mese trascorso nello spazio, e recentemente è venuto alla luce come l’esposizione prolungata alla microgravità causi un’alterazione anche al microbiota intestinale.

Lo studio in oggetto ha previsto che 10 topi tornassero sulla terra dopo 4 settimane e mezzo, i restanti 10 sono rimasti in orbita per nove settimane totali. Il microbiota intestinale e la BMD sono stati analizzati prima e dopo il lancio dei roditori, inoltre un campione altrettanto numeroso è stato preso come controllo ed è stato fatto alloggiare nelle stesse condizioni dei “topi astronauti” ma sulla Terra.

Rispetto ai controlli, il microbiota dei roditori che hanno trascorso 4 settimane e mezzo nello spazio è risultato alterato, la perdita di densità ossea considerevole e hanno riscontrato livelli ematici elevati di metaboliti come acido lattico e acido malico, entrambi associati proprio al rimodellamento osseo. Nei topi rimasti in orbita per 9 settimane questi esiti sono stati confermati e in proporzione sono risultati più elevati.

Tra i metaboliti riscontrati nel sangue anche il glutatione, noto per i suoi effetti antiossidanti e per il suo ruolo nel regolare l’attività degli osteoblasti, le cellule deputate alla sintesi e alla mineralizzazione delle ossa.

Per quanto riguarda il microbiota è risultato essere alterato e maggiormente diversificato rispetto ai topi non sottoposti alla microgravità, in particolare due specie batteriche erano in concentrazioni maggiori: Lactobacillus e Dorea, il cui metabolismo è coinvolto nella produzione di molecole responsabili del rimodellamento osseo.

Altri batteri inaspettatamente più numerosi dopo il viaggio dei topi nello spazio sono stati il Clostridium, Romboutsia e Ruminiclostridium, mentre i batteri Hungatella erano significativamente diminuiti.

Ovviamente si tratta di uno studio pilota e saranno necessari numerosi altri studi per convalidare l’ipotesi della correlazione tra alterazione del microbiota intestinale e diminuzione della densità ossea nello spazio.

 

Celiachia e densità ossea

Questo articolo, tratto dalla review di Mosca et al. vuole andare a esaminare la correlazione tra la densità minerale ossea (BMD) e la celiachia diagnosticata, spesso tardivamente, in giovani adulti i quali sono quindi soggetti ad un maggior ischio di frattura; inoltre vedremo quali sono gli effetti di una dieta gluten-free (GF), accompagnata dall’assunzione di integratori di vitamina D, e gli effetti dei farmaci anti-riassorbitivi.

Celiachia

La celiachia è una malattia cronica, autoimmune, caratterizzata dal malassorbimento dei nutrienti in seguito all’ingestione del glutine, un complesso proteico la cui principale proteina è la gliadina, presente in particolar modo nelle farine di frumento, farro, orzo e altri cereali. Questa malattia è caratterizzata dalla sovra-espressione dell’antigene HLA di classe II, coinvolto nell’attivazione dei linfociti T che danno origine al processo autoimmunitario; la risposta infiammatoria mediata dai linfociti T porta a un’atrofia dei villi intestinali e quindi a un malassorbimento dei nutrienti. La celiachia può insorgere a qualsiasi età, con sintomi diversi e di diversa gravità, ma non essendo uno screening obbligatorio spesso rimane non diagnosticata per anni, anche se insorta durante la prima infanzia, causando un peggioramento dei sintomi associati.

E le ossa?

La salute delle ossa viene coinvolta negativamente dalla celiachia se non curata, a causa del processo infiammatorio in atto ma soprattutto a causa del malassorbimento intestinale dei nutrienti, in particolar modo di calcio e vitamina D. Gli effetti collaterali più frequenti in pazienti celiaci diagnosticati tardivamente sono osteopenia, osteoporosi e rischio di fratture, che nei pazienti celiaci è stato visto essere del 30% più alto che nei soggetti sani, e per quanto riguarda nello specifico la frattura del bacino hanno un 69% in più di possibilità che avvenga.

Lo studio

Questa review raccoglie i dati presenti in letteratura riguardo 1) la prevalenza di osteopenia ed osteoporosi in giovani adulti (20-35 anni) appena diagnosticati con malattia celiaca; 2) gli effetti di una dieta gluten-free, iniziata al momento della diagnosi, sulla densità minerale ossea; 3) gli effetti di una combinazione di dieta GF e integratori di vitamina D e probiotici sempre sulla BMD e infine 4) gli effetti dell’assunzione di farmaci anti-riassorbitivi per osteoporosi.

Sono stati identificati i tre studi maggiormente rilevanti, uno neozelandese, uno italiano e uno argentino. In tutto sono stati analizzati i dati di 188 pazienti, tutte donne. Tutti e tre gli studi hanno evidenziato una stretta correlazione tra una celiachia non trattata e una diminuzione della BDM.

Nello studio di Zanchetta et al. 31 donne in pre-menopausa appena diagnosticate con la malattia celiaca hanno mostrato una significativa diminuzione della BMD lombare, del collo del femore e del radio distale paragonate a donne sane della stessa età, circa 30 anni. Nello stesso studio è stata dimostrata l’influenza della dieta gluten-free, in pazienti appena diagnosticati, sulla BDM che è aumentata considerevolmente in tutte le zone prese in considerazione, rispetto agli stessi soggetti prima della diagnosi. Nello studio di Passanti et al., invece, hanno scelto 110 donne a cui hanno misurato la BDM al momento della diagnosi di celiachia e poi sono state randomicamente divise in due gruppi da 55: un gruppo è stato rianalizzato dopo 2 anni di dieta GF e la BMD è risultata aumentata nel femore, il secondo gruppo è stato rianalizzato dopo 5 anni dalla diagnosi la BMD è risultata aumentata significativamente sia nel femore che nella colonna, mostrando quanto sia importante seguire una corretta dieta gluten-free.

Conclusioni

Nonostante siano pochi gli studi a riguardo, la correlazione tra la celiachia non trattata o diagnosticata tardivamente e una diminuzione della densità minerale ossea è inequivocabile. Questa evidenza è particolarmente marcata nei bambini e negli adolescenti, motivo per cui si rende necessario l’inserimento dell’analisi della BDM come esame di routine per tutti i pazienti appena diagnosticati.

Sembra anche evidente che la densità minerale ossea abbia forti benefici da una corretta dieta senza glutine.

Un’ultima analisi riguarda l’assunzione di integratori e farmaci anti-riassorbitivi. Uno studio ha analizzato 34 pazienti divisi in due gruppi, rispettivamente uno che ha affiancato alla dieta GF l’assunzione di calcio e vitamina D, l’altro ha ricevuto una singola iniezione di acido zoledronico (anti-riassorbitivo). In entrambi i casi, dopo 1 anno dalla diagnosi, si è potuto apprezzare un incremento della BMD tuttavia la differenza tra i due gruppi non è stata significativa, portando alla conclusione che in questi casi l’anti-riassorbitivo apporti un beneficio quasi paragonabile all’integrazione di calcio e vitamina D.

 

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