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Osteoporosi in un bambino di 11 anni, un caso clinico

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di pediatria del Kasturba Medical College, Manipal Academy of Higher Education (MAHE) in India ha pubblicato uno studio clinico relativo a un bambino di 11 anni presentatosi con dolore alla schiena progressivo da due mesi e fattura da compressione della vertebra D7.

All’esame, il ragazzino non presentava pallore, linfoadenopatia o organomegalia; aveva dolorabilità lombare inferiore. Lo striscio periferico non mostrava blasti. Ulteriori indagini hanno evidenziato osteoporosi con frattura da compressione delle vertebre da D7 a D11. L’aspirato del midollo osseo ha confermato la diagnosi di leucemia linfoblastica acuta a cellule pre-B.

Un’evenienza rara, da indagare approfonditamente

L’osteoporosi è rara nell’età pediatrica ed è solitamente secondaria a malassorbimento, chemioterapia, tumori maligni, trattamento prolungato con corticosteroidi, malattie reumatiche, osteogenesi imperfetta e alcuni disturbi endocrini.

L’osteoporosi è una complicanza nota della leucemia pediatrica e può verificarsi dal momento della diagnosi fino alla remissione, tuttavia sono stati segnalati pochissimi casi con osteoporosi ad esordio acuto e frattura vertebrale con conseguente dolore lombare diffuso, come osservato nel paziente in esame che, tra l’altro, presentava emocromo completo, VES e striscio periferico normali. Escluse altre cause di osteoporosi, come l’istiocitosi a cellule di Langerhans, l’osteogenesi imperfetta, la tubercolosi e il mieloma multiplo, che erano negativi, e in considerazione dell’alto indice di sospetto, i medici hanno condotto studi sul midollo osseo che hanno confermato la diagnosi di leucemia linfoblastica acuta pre-B.

Il caso presentato evidenzia l’importanza di una valutazione dettagliata di bambini che presentano osteoporosi ad esordio acuto senza comorbilità e la necessità di approfondire ulteriormente gli studi relativa alla correlazione tra osteoporosi e leucemia linfoblastica acuta.

Lo studio

KJ M, SC M, DM G, RA P. Osteoporosis in an 11 year old: a case report. Pediatr Oncall J. 2023 Jun 20. doi: 10.7199/ped.oncall.2025.45

Prodotti finali della glicazione avanzata e sarcopenia: ruolo di mediazione dell’osteoporosi

La sarcopenia è una sindrome caratterizzata da una perdita progressiva e generalizzata della massa e della forza del muscolo scheletrico.

La prevalenza della sarcopenia varia nelle diverse popolazioni del mondo a causa dei diversi criteri diagnostici. Tra gli anziani di età compresa tra 60 e 89 anni nella Cina orientale, la prevalenza della sarcopenia è del 21,7% nelle donne e del 12,9% negli uomini.

Sarcopenia e osteoporosi

La sarcopenia è associata a un aumento del rischio di esiti avversi, tra cui disabilità fisica, scarsa qualità della vita e un’elevata prevalenza tra gli individui con malattie cardiovascolari, demenza e osteoporosi.

È stato riportato che la prevalenza della sarcopenia è del 29,7% nei soggetti con osteoporosi, mentre è del 9,0% in quelli senza osteoporosi. Tuttavia, lo screening precoce e l’intervento per la sarcopenia e l’osteoporosi sono spesso insufficienti tra gli anziani che risiedono nelle comunità cinesi.

Sarcopenia, osteoporosi e prodotti finali della glicazione avanzata

I prodotti finali della glicazione avanzata (AGE) sono un gruppo di molecole generate attraverso reazioni non enzimatiche e associate a varie malattie legate all’età, tra cui la sarcopenia e l’osteoporosi.

Un gruppo di ricercatori cinesi ha intrapreso uno studio per esaminare le associazioni tra AGE, osteoporosi e sarcopenia negli anziani che vivono in comunità in Cina, nonché per esplorare potenziali effetti di mediazione.

Lo studio trasversale “Association between advanced glycation end products and sarcopenia: the mediating role of osteoporosis” ha incluso 1991 anziani di età compresa tra 72,37±5,90 anni provenienti dalla Cina.

I livelli di AGE sono stati misurati dal dispositivo AGE ReaderTM. La densità minerale ossea è stata valutata utilizzando l’assorbimetria a raggi X a doppia energia e l’osteoporosi è stata diagnosticata sulla base di un punteggio T < -2,5.

La sarcopenia è stata definita come perdita di massa muscolare associata a perdita di forza muscolare e/o ridotta prestazione fisica.

La presarcopenia è stata definita come una ridotta massa muscolare con forza muscolare normale e prestazioni fisiche normali.

Un’associazione significativa

La prevalenza della sarcopenia era del 18,5% e quella dell’osteoporosi era del 40,5%.

Rispetto al quartile AGE più basso, il quartile AGE più alto ha mostrato un’associazione significativa con la sarcopenia (OR 2,42, IC al 95% [1,60, 3,66]) (P per il trend <0,001), ma non con la prercopenia.

L’aumento dell’AGE per deviazione standard (SD) è stato associato a probabilità più elevate di sarcopenia (OR 1,44, IC al 95% [1,26, 1,66]). Inoltre, nell’analisi di mediazione, quando gli AGE sono stati trattati come una variabile continua (l’effetto di mediazione è indicato da Za*Zb = 18,81, IC al 95% [8,07, 32,32]—l’IC al 95% non contiene zero, rappresentando un valore di mediazione significativo effetto) o una variabile categoriale (l’effetto di mediazione è espresso come Zmediazione = 3,01 > 1,96, che rappresenta un effetto di mediazione significativo), l’osteoporosi ha svolto un ruolo di mediazione parziale nell’associazione tra AGE e sarcopenia.

Dallo studio della relazione tra AGE e sarcopenia negli anziani che vivono in comunità in Cina, i ricercatori hanno trovato un’associazione significativa tra gli AGE e la comparsa di sarcopenia, ma non di prercopenia, e hanno stato scoperto che l’osteoporosi svolge un ruolo di mediazione in questa associazione.

Lo screening precoce degli AGE e dell’osteoporosi può aiutare a mitigare la futura incidenza della sarcopenia negli anziani.

Interventi terapeutici nell’osteoporosi associata a gravidanza e allattamento

L’osteoporosi associata a gravidanza e allattamento (PLO) è una patologia rara, caratterizzata da bassa densità minerale ossea (BMD) e da fratture che coinvolgono principalmente le vertebre toracolombari.

Descritta nel 1955 da Nordin e Toper, la sua incidenza è stimata tra i quattro e gli otto casi per un milione di donne, ma potrebbe essere più elevata, poiché molti casi non vengono diagnosticati.

I principali sintomi includono forte mal di schiena, limitazioni funzionali e perdita di altezza. Le sedi più colpite sono T12, L1 e L2. Più di due terzi dei casi si verificano durante la prima gravidanza, principalmente nel terzo trimestre o nelle prime settimane dopo il parto.

Una patologia rara poco studiata

Nonostante la sua ben nota manifestazione clinica, poco si sa sulla patogenesi della PLO, sulla sua storia e sui fattori di rischio e, poiché mancano ancora studi randomizzati e controllati, non è stata ancora stabilita la gestione ottimale. In generale, in letteratura sono stati riportati la cessazione dell’allattamento al seno, l’uso di tutori ortopedici, la supplementazione di vitamina D più calcio (CaD) e farmaci antiriassorbitivi (vale a dire bifosfonati) o osteoanabolici (cioè teriparatide) di durata variabile. Tuttavia, la necessità di questi trattamenti è incerta, poiché, nella maggior parte di queste donne, si verifica successivamente un aumento progressivo della BMD, ma l’entità di questo recupero spontaneo della BMD varia significativamente tra gli studi, con diversi periodi di follow-up e tipo di integrazione di CaD.

Per questi motivi e anche in virtù del fatto che non era mai stata condotta alcuna meta-analisi riguardante l’effetto dei diversi trattamenti antiosteoporosi sugli esiti dell’OLP, un gruppo di ricercatori greci ha intrapreso uno studio per rivedere sistematicamente e meta-analizzare le prove esistenti riguardanti l’effetto di diversi interventi terapeutici sulla densità minerale ossea e sul rischio di frattura nelle donne con PLO.

Una ricerca per valutare gli interventi terapeutici ottimali

I ricercatori hanno condotto un’analisi completa nei database PubMed/Scopus fino al 20 dicembre 2022. I dati sono stati espressi come differenza media ponderata (WMD) con IC al 95%. L’indice I2 è stato utilizzato per l’eterogeneità. Sono stati inclusi studi condotti su donne con PLO che hanno ricevuto una terapia antiosteoporosi. Sono stati esclusi gli studi che includevano donne con cause secondarie di osteoporosi o con osteoporosi transitoria dell’anca. L’estrazione dei dati è stata completata in modo indipendente da due ricercatori.

Nell’analisi qualitativa sono stati inclusi sessantasei studi (n = 451 [intervallo di tempo di follow-up 6-264 mesi; intervallo di età 19-42 anni]).

L’aumento della BMD della colonna lombare (LS) con calcio/vitamina D (CaD), bifosfonati e teriparatide è stato dal 2,0% al 7,5%, dal 5,0% al 41,5% e dall’8,0% al 24,4% a 12 mesi e dall’11,0% al 12,2 %, rispettivamente dal 10,2% al 171,9% e dal 24,1% al 32,9% a 24 mesi.

La BMD del collo femorale (FN) è aumentata del 6,1% con CaD e dallo 0,7% al 18% e dall’8,4% al 18,6% con bifosfonati e teriparatide (18-24 mesi), rispettivamente.

La meta-analisi è stata eseguita solo per due studi interventistici. Teriparatide ha indotto un aumento maggiore della BMD di LS e FN rispetto a CaD (WMD 11,5%, IC 95% 4,9-18,0%, I2 50,9% e 5,4%, IC 95% 1,2-9,6%, I2 8,1%, rispettivamente).

Risultati poco significativi

Lo studio Comparative Effectiveness of Therapeutic Interventions in Pregnancy and Lactation-Associated Osteoporosis: A Systematic Review and Meta-analysis è la prima revisione sistematica e meta-analisi riguardante l’effetto di diversi interventi terapeutici nelle donne con PLO.

L’OLP è una patologia rara che compromette la qualità delle donne in età riproduttiva.

Nonostante il progressivo aumento della densità minerale ossea, che si verifica nella maggior parte delle donne dopo lo svezzamento, con o senza integrazione di CaD, teriparatide e agenti antiriassorbimento migliorano questo recupero.

A causa dell’elevata eterogeneità e della mancanza di dati comparativi robusti tra gli studi, non è possibile trarre conclusioni sicure riguardo alla superiorità di un intervento rispetto a un altro nelle donne con PLO.

Necessità ulteriori studi

Esiste un’urgente necessità di futuri studi randomizzati e controllati per valutare l’effetto di diversi interventi terapeutici sulla densità minerale ossea e sul rischio di frattura. Inoltre, anche gli esiti a lungo termine e la qualità della vita fino alla menopausa dovrebbero essere valutati in studi prospettici.

La revisione

Panagiotis Anagnostis, Kalliopi Lampropoulou-Adamidou, Julia K Bosdou, Georgios Trovas, Petros Galanis, Efstathios Chronopoulos, Dimitrios G Goulis, Symeon Tournis, Comparative Effectiveness of Therapeutic Interventions in Pregnancy and Lactation-Associated Osteoporosis: A Systematic Review and Meta-analysisThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2023;, dgad548, https://doi-org.pros2.lib.unimi.it/10.1210/clinem/dgad548

Zoledronato e densità minerale ossea in bambini con paralisi cerebrale

La paralisi cerebrale (CP) è la causa più comune di compromissione motoria nei bambini e si verifica in circa 2 su 1000 nati vivi. Le funzioni motorie di bambini e adulti con CP si classificano i 5 livelli. Gross Motor Function Classification System (GMFCS) IV e V descrivono individui non deambulanti. All’aumentare del livello di GMFCS diminuisce la densità minerale ossea (BMD) e cresce il rischio di fratture: le fratture nei bambini con paralisi cerebrale non deambulanti spesso si verificano senza traumi o con traumi minimi nonostante un basso livello di attività fisica. In uno studio retrospettivo con 619 pazienti con CP, il tasso di frattura sembrava aumentare dal 6% al 15% con ogni diminuzione della SD nella BMD (punteggio Z) del femore distale.

Per dare evidenza al fatto che lo zoledronato possa ridurre i tassi di frattura nei bambini con paralisi cerebrale (CP), un gruppo di ricercatori danesi ha condotto uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco, analizzando l’effetto di due dosi di trattamento sui punteggi Z della densità minerale ossea (BMD) in pazienti con CP GMFCS IV-V.

I bambini non deambulanti con paralisi cerebrale (da 5 a 16 anni di età) sono stati randomizzati 1:1 a ricevere 2 dosi di zoledronato o placebo a un intervallo di 6 mesi.

Per calcolare le variazioni del punteggio Z della BMD a livello della colonna lombare e del femore distale laterale (LDF) sono state effettuate scansioni assorbimetriche a raggi X a doppia energia.

Il monitoraggio includeva peso, età ossea, stadiazione puberale, lunghezza del ginocchio, eventi avversi, marcatori biochimici e questionari.

I risultati dello studio

Sono stati randomizzati 24 partecipanti e tutti hanno completato lo studio. Quattordici sono stati assegnati al gruppo che ha assunto zoledronato.

Grazie ai trattamento con 0,025 e 0,05 mg/kg di zoledronato a 0 e 6 mesi, lo Z-score medio della BMD della colonna lombare è aumentato di 0,8 DS (IC al 95%: 0,4; 1,2) nel gruppo zoledronato, un valore significativo se confrontato con 0,0 SD (IC al 95%: -0,3; 0,3) nel gruppo placebo. Allo stesso modo, i punteggi Z della BMD del femore distale laterale sono aumentati maggiormente nel gruppo zoledronato.

Le reazioni avverse acute sono state frequenti dopo la prima dose e alcune sono state segnalate come gravi. Una reazione avversa grave con ipocalcemia ha richiesto il ricovero notturno. Il turnover osseo è stato ridotto, ma la crescita non è stata influenzata.

Evidenza dell’efficacia di zoledronato

Lo zoledronato per 12 mesi ha aumentato significativamente i punteggi Z della BMD senza influenzare la crescita, ma gli effetti collaterali della prima dose sono stati comuni e considerevoli.

I risultati dello studio hanno documentato l’effetto positivo di un bisfosfonato di terza generazione e ampliato la conoscenza delle strategie per migliorare la salute delle ossa nei bambini con paralisi cerebrale. Si raccomandano ulteriori ricerche su una prima dose di zoledronato più bassa e sull’effetto sui tassi di frattura e sul dolore.

La revisione

Jakob Bie Granild-Jensen, Bjarne Møller-Madsen, Gija Rackauskaite, Stense Farholt, Charlotte Søndergaard, Tine Høg Sørensen, Esben Thyssen Vestergaard, Bente Lomholt Langdahl Zoledronate Increases Bone Mineral Density in Nonambulant Children With Cerebral Palsy: A Randomized Controlled Trial, The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 108, Issue 11, November 2023, Pages 2840–2851, https://doi.org/10.1210/clinem/dgad299

Osteoporosi come conseguenza del trapianto di rene

Il trapianto di rene è la miglior soluzione terapeutica per le più gravi disfunzioni renali. L’osteoporosi e la fragilità ossea costituiscono una comune complicanza post-operatoria che si manifesta nel breve-medio termine; nonostante sia stata ampiamente studiata ci sono ancora alcuni dubbi sul meccanismo patogenico di questo tipo di osteoporosi, sui suoi fattori di rischio e sulla terapia più giusta per trattarla.

La diminuzione della massa ossea è particolarmente rilevante nei primi 6-12 mesi dal trapianto, e va a diminuire nei mesi successivi.

Patogenesi e fattori di rischio

I fattori di rischio pre-trapianto includono la durata della dialisi, livelli alti o bassi di paratormone (PTH) e preesistenti malattie ossee. Fattori di rischio post-trapianto associati a perdita ossea e/o fratture sono reni ricevuti da un donatore deceduto, scelta del regime immunosoppressivo (glucocorticoidi, inibitori della calcineurina), tempo trascorso dal trapianto, ipofosfatemia e disfunzione del trapianto. Alcuni rischi aggiuntivi sono fattori quali lo stato postmenopausale per le donne e la presenza del diabete, in aggiunta ai classici fattori di rischio dell’osteoporosi come età e genere femminile. Il risultato finale di questo processo multifattoriale che è determinato da un incremento nel riassorbimento osteoclastico e nella diminuzione della formazione ossea è uno squilibrio nel turnover osseo che porta alla perdita di massa ossea e che persiste a lungo dopo il trapianto.

Sono stati condotti diversi studi clinici per identificare fattori di rischio specifici associati alle malattie minerali ossee e in particolare all’osteoporosi dopo trapianto renale. Non c’è dubbio che pre-trapianto renale l’osteodistrofia gioca un ruolo importante nel mantenimento o sviluppo post-trapianto del rimodellamento osseo. La maggior parte degli RTR (Renal Transplant Recipients) hanno varie forme di preesistenti malattie ossee che possono persistere dopo il trapianto: persistente iperparatiroidismo secondario, iperplasia nodulare delle paratiroidi e iperparatiroidismo che deriva da una progressiva alterazione delle funzionalità. Si tratta di condizioni che potrebbero essere responsabili per almeno alcune delle anomalie scheletriche e minerali a seguito del trapianto renale.

Tuttavia, in molti studi, i reperti istopatologici ossei sono eterogenei, senza correlazione evidente con i livelli sierici di PTH post-trapianto, suggerendo che altri fattori che si attivano dopo il trapianto potrebbero svolgere un ruolo centrale nello sviluppo di queste alterazioni ossee. È stato suggerito un ruolo importante del PTH nel preservare il numero e l’attività degli osteoblasti dopo il trapianto prevenendo il fenomeno dell’apoptosi. Tuttavia, vale la pena menzionare che due studi che sono stati condotti valutando campioni di biopsie ossea negli RTR non hanno evidenziato alcuna correlazione tra i livelli sierici di PTH e quelli di turnover ossei.

Soppressione della formazione ossea indotta da glucocorticoidi è probabilmente il fattore più importante nella genesi di perdita ossea sia precoce che a lungo termine. Gli steroidi somministrati in caso di trapianto sono infatti direttamente tossici per gli osteoblasti e portano ad un aumento dell’attività degli osteoclasti. Essi hanno anche altri effetti che promuovono la perdita di calcio, portando allo sviluppo di osteopenia.

Dati riguardanti gli effetti di altri farmaci immunosoppressivi sull’osteopatia e osteoporosi post-trapianto sono ancora ambigui e in fase di studio.

Evoluzione dell’osteoporosi post-trapianto

La perdita di massa ossea dopo il trapianto di rene che porta a osteopenia e osteoporosi si verifica principalmente nei primi 12 mesi, interessando soprattutto la parte corticale dell’osso. Il declino più rapido della BMD, misurato attraverso le scansioni DEXA, si verifica nei primi 6 mesi dopo il trapianto e sembra rallentare in seguito, un fatto che è stato attribuito alla minimizzazione o eliminazione dei corticosteroidi.

Allo stesso modo, alcuni studi precedenti hanno dimostrato che la BMD diminuisce significativamente di una media del 5,5–19,5% durante i primi 6 mesi dopo il trapianto ma solo del 2,6–8,2% tra i mesi 6 e 12 e dello 0,4–4,5% successivamente. Cambiamenti della massa ossea avvenuti tardivamente dopo il trapianto sono più rari e di natura più controversa. Uno studio clinico ha riportato che in un gruppo di soggetti sottoposti a trapianto di reni la BDM è diminuita dopo un lasso di tempo più lungo rispetto alla media, ed è progressivamente migliorata tornando a valori normali solo dopo 10 anni dal trapianto.

Valutazione diagnostica

Negli RTR, uno strumento non invasivo ed economicamente vantaggioso per quanto riguarda la valutazione diagnostica dell’osteoporosi è il monitoraggio della BMD con scansioni DEXA, sebbene esistano una serie di limitazioni. I risultati delle scansioni DEXA vengono interpretati secondo la classificazione dell’osteoporosi da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ma è importante notare che la definizione dell’OMS di osteoporosi e la relativa classificazione è improbabile che possa essere applicabile nei pazienti con insufficienza renale cronica e nelle RTR. Questo fatto è supportato dalla scarsa correlazione tra densità minerale ossea e il rischio di frattura, e dalle informazioni limitate fornite da BMD riguardo alla qualità ossea o al turnover.

Quindi l’indicazione data dalla scansione DEXA dopo il trapianto renale non è del tutto affidabile.

Per quanto riguarda gli strumenti diagnostici alternativi non invasivi nella complessa entità dell’osteoporosi nelle RTR, il punteggio osseo trabecolare (TBS) potrebbe essere considerato un’opzione. Il TBS è correlato alla microarchitettura ossea e fornisce informazioni scheletriche che non vengono catturate dalla misurazione BMD standard.

Secondo l’analisi delle biopsie ossee, che rimane il gold standard per la diagnosi post-trapianto di malattie minerali ossee, la maggior parte dei pazienti dopo il trapianto presentava una malattia ossea di tipo adinamico. Uno studio ha dimostrato che il volume e lo spessore dell’osteoide, la superficie di riassorbimento dell’osteoide e la superficie degli osteoclasti avevano un livello al di sopra del range standard prima del trapianto e sono rimasti tali per circa 35 giorni dopo trapianto; tuttavia dopo questo lasso di tempo questi valori sono significativamente diminuiti, e si è aggiunta l’inibizione della formazione e della mineralizzazione ossea così come l’apoptosi, correlata alla dose dei glucocorticoidi somministrati.

La principale alterazione nel rimodellamento osseo dopo il trapianto renale è una diminuzione nella formazione ossea e nella mineralizzazione, contemporaneamente a riassorbimento osseo persistente, che può portare un disequilibrio a favore del riassorbimento. Allo stesso modo la mancata formazione ossea può essere una conseguenza di alterazioni nella funzione degli osteoblasti, diminuzione dell’osteoblastogenesi o aumento dei tassi di apoptosi degli osteoblasti.

Fratture post-trapianto

Diverse pubblicazioni hanno confermato l’aumento del rischio di frattura dopo trapianto renale rispetto ai pazienti sottoposti alla dialisi cronica. Studi precedenti hanno dimostrato che nel complesso il rischio di frattura dopo il trapianto renale è quasi quattro volte maggiore rispetto agli individui sani ed è superiore del 30% durante i primi 3 anni dopo il trapianto rispetto ai pazienti in dialisi.

Un altro aspetto interessante è il rapporto tra BMD e rischio di frattura nei pazienti trapiantati. Sebbene una bassa BMD è un potente fattore di rischio di frattura, studi precedenti hanno suggerito che molti RTR con bassa BMD non sperimentano mai fratture. Inoltre, più di recente, è stato dimostrato che il 44% dei pazienti 5 anni dopo il trapianto sono andati incontro ad almeno una frattura e più di un terzo di loro avevano una BMD che non rispecchiava i criteri dell’osteoporosi secondo l’OMS.

Trattamenti

La gestione della malattia ossea dopo trapianto renale dovrebbe considerare innanzitutto un trattamento per l’osteodistrofia renale subentrata prima del trapianto renale, poi mantenere l’attenzione su prevenzione delle malattie ossee durante il primo anno, quando la perdita ossea è più significativa e infine il trattamento a lungo termine per la diminuzione della massa ossea. In questo contesto va sottolineato che i disturbi del metabolismo osseo post-trapianto sono di natura complessa e si estendono oltre l’osteoporosi, rendendo necessaria una particolare attenzione. Infatti la somministrazione di farmaci approvati per l’osteoporosi, il cui meccanismo di azione sia l’abbassamento del turnover osseo quando un eccessivo turnover non è presente, potrebbe essere deleterio.

La maggior parte degli studi che hanno evidenziato questo problema purtroppo hanno però significative limitazioni tra cui una mancanza di randomizzazione, un campione di soggetti ridotto e trattamenti immunosoppressivi diversi tra loro e che potrebbero inficiare il metabolismo minerale osseo.

I bisfosfonati sono tra i farmaci più comuni ed efficaci nel trattamento dell’osteoporosi postmenopausale, e agiscono inibendo il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti.

I bisfosfonati di seconda e terza generazione sono molto efficaci nel prevenire la perdita ossea dopo il trapianto. In quattro studi condotti somministrando dosi diverse di pamidronato durante i primi mesi dopo il trapianto renale, la prevenzione della perdita ossea si è verificata anche dopo la sospensione del trattamento. La maggior parte degli studi, se non tutti, suggeriscono che la somministrazione di pamidronato prevenga la perdita ossea poco dopo il trapianto, anche se la malattia del basso turnover osseo può svilupparsi o peggiorare in molti pazienti. Risultati simili sono stati riscontrati quando è stato somministrato l’alendronato.

I metaboliti della vitamina D potrebbero avere un ruolo nella prevenzione della perdita di massa ossea post-trapianto, attraverso il loro effetto di facilitazione dell’assorbimento del calcio, riducendo la secrezione del PTH e allo stesso tempo mitigando le conseguenze sulla perdita di materiale osseo da parte dei glucorticoidi.

Un altro agente terapeutico studiato nei pazienti dopo il trapianto di rene è la teriparatide, un ricombinante umano del PTH. La teriparatide è stata confrontata con i bifosfonati in pazienti con osteoporosi che avevano ricevuto glucocorticoidi con risultati migliori per quanto riguarda i miglioramenti in BMD nel gruppo ricevente teriparatide.

Denosumab, inibitore RANKL e ampiamente utilizzato nella cura dell’osteoporosi, potrebbe essere teoricamente somministrato per ridurre il riassorbimento delle strutture trabecolari e per trattare l’osteonecrosi, ma al momento non ci sono ancora dati sull’uomo.

Attualmente non esistono approcci terapeutici consolidati; tuttavia, analoghi della vitamina D e bifosfonati sono spesso usati per il trattamento dell’osteoporosi dopo il trapianto di rene. Sono necessari ulteriori studi per esaminare i complessi meccanismi fisiopatologici implicati.

Linee guida per il trattamento dell’osteoporosi

In questa seconda parte delle Linee Guida Internazionali vedremo quanto riguarda il trattamento dell’osteoporosi.

Farmaci per osteoporosi approvati da FDA

Attualmente le terapie farmacologiche per prevenire o trattare l’osteoporosi postmenopausale includono: bisfosfonati, estrogeni, ormone paratiroideo, RANKL inibitori e anticorpi monoclonali umani per la sclerostina. In linea generale una terapia che ha mostrato di essere efficace sulla riduzione del rischio di fratture sia vertebrali che non vertebrali è da preferire rispetto a un’altra che non ha questa doppia validità.

Bisfosfonati

I bisfosfontati sono una potente classe di agenti anti-riassorbitivi. Tutti i farmaci appartenenti a questa categoria possono avere effetti collaterali sulle funzioni renali e sono controindicati nei pazienti con una filtrazione glomerulare inferiore a 30-35 mL/min.

Di questi fa parte l’alendronato, approvato sia per la prevenzione che per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale. Alendronato riduce l’incidenza di fratture della colonna e del bacino di circa il 50% durante tre anni di trattamento in pazienti che si erano fratturati in precedenza e con T-score del bacino inferiore a -2,5.

Anche l’acido zoledronico è un bisfosfonato, approvato da FDA per la prevenzione e trattamento dell’osteoporosi postmenopausale con una somministrazione una volta all’anno per il trattamento e una volta ogni due anni per la prevenzione. È stato dimostrato che l’acido zoledronico riduce il rischio di fratture vertebrali del 62-70%, di fratture del bacino del 41% e di fratture non vertebrali del 20-25% durante i tre anni di trattamento.

Analoghi dell’ormone paratiroideo

L’ormone paratiroideo (PTH) è noto per regolare l’omeostasi del calcio. La teriparatide è un frammento del PTH umano sintetizzato approvato dall’FDA per il trattamento dell’osteoporosi sia femminile che maschile per soggetti ad alto rischio di fratture. Teriparatide riduce il rischio di fratture vertebrali del 35-53% nei pazienti dopo circa 18 mesi di terapia, e viene somministrata con iniezioni subcutanee giornaliere. Quando il trattamento non è continuativo può verificarsi una rapida perdita di materiale osseo e va considerata una continuazione della terapia per mantenere la corretta BMD.

RANKL inibitori

La citochina RANK-ligando (RANKL) prodotta dagli osteociti è necessaria per la formazione degli osteoclasti. Sopprimere il RANKL blocca la formazione degli osteoclasti, riducendo la quantità di tessuto osseo riassorbito e portando a una maggiore densità ossea.

Il denosumab è un anticorpo monoclonale umano contro RANKL approvato da FDA per il trattamento di uomini e donne con osteoporosi con un alto rischio di fratture. È approvato per il trattamento di pazienti che hanno fallito o che sono intolleranti ad altre terapie disponibili per l’osteoporosi, è adatto a donne in postmenopausa con osteoporosi ad alto rischio di frattura e per aumentare la massa ossea negli uomini con osteoporosi ad alto rischio frattura.

Denosumab è uno dei farmaci anti-riassorbitivi più potenti disponibili per il trattamento dell’osteoporosi perché va a inibire direttamente la formazione degli osteoclasti e causa l’apoptosi degli osteoclasti già maturi. La sua somministrazione avviene tramite iniezione sottocutanea una volta ogni sei mesi. Purtroppo l’interruzione di denosumab è associata a una rapida perdita di materiale osseo che può portare a multiple fratture vertebrali, soprattutto in pazienti con una storia di fratture alle spalle. Per questo motivo non è consigliato fare una “drug holiday” da questo farmaco.

Sclerostina inibitori

Il romosozumab è un anticorpo monoclonale umano contro la sclerostina, approvato dall’FDA per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale in donne ad alto rischio di frattura (è approvato per gli uomini in alcuni paesi ma gli USA non sono tra questi). Per quanto riguarda la sua efficacia, romosozumab riduce il rischio di fratture e incrementa la BMD della colonna lombare e del bacino più dell’alendroato e teriparatide in donne in postmenopausa con una bassa massa ossea. Viene somministrato con una iniezione sottocutanea mensile per un massimo di 12 mesi a causa di un effetto controproducente sulla formazione ossea dopo un anno di assunzione.

Raggiungimento degli obiettivi della terapia

Con la disponibilità di parametri di riferimento misurabili come BMD, incidenza di fratture e marcatori biochimici del turnover osseo, la strategia “treat-to-target” focalizzata sui risultati, il monitoraggio e la rivalutazione possono essere applicati alla gestione dell’osteoporosi.

Per i pazienti idonei che iniziano la terapia, un periodo di 3 anni di trattamento è quello più ragionevole per raggiungere l’obiettivo finale, quello di aumentare il T-score da -2,8 a > -2,5 e non avere fratture. Una BMD stabile e un anno senza nuove fratture potrebbero essere un obiettivo misurabile per qualcuno con un livello basso BMD e precedenti fratture da fragilità.

Tuttavia, fondamentale per il concetto di “treat-to-target” è il principio secondo cui la risposta alla terapia non è necessariamente sufficiente per raggiungere un livello di rischio accettabile. Un paziente può raggiungere la sua BMD “target” ed essere ancora a rischio troppo elevato di frattura. Questo principio ha implicazioni per la scelta della terapia iniziale.

Terapia combinata e sequenziale

Pazienti con fratture recenti e/o BMD molto bassa (T-score < – 3,0) sono a rischio particolarmente elevato di future fratture. La monoterapia con anti-riassorbitivi potrebbe non essere sufficiente a ridurre il rischio a livelli accettabili in tali pazienti. In questi casi quindi è consigliato passare a una terapia più aggressiva con la combinazione oppure può essere giustificato l’uso sequenziale di farmaci antifratturativi.

La combinazione e/o uso sequenziale di anabolizzanti (ad esempio teriparatide) e potenti antiriassorbitivi (ad esempio denosumab) è stato dimostrato che aumenta la densità minerale ossea e migliora la microarchitettura e la resistenza in modo più efficace rispetto alla mono terapia con qualsiasi agente.

Ci sono ormai numerosi studi a supporto del fatto che la densità minerale ossea e le fratture sono significativamente influenzati dall’ordine in cui vengono somministrati agenti antifratturativi. Un agente anabolizzante somministrato in seguito alla terapia anti-riassorbitiva ha dimostrato impatto minore sulla densità minerale ossea rispetto alla somministrazione dell’anabolizzante come primo trattamento, infatti la terapia anabolizzante dopo un potente anti-riassorbitivo può comportare un’attenuazione dell’effetto benefico raggiunto o addirittura perdita ossea. Quando si considera il trattamento sequenziale, iniziare con la terapia anabolizzante e proseguire con quella antiriassorbitiva è sicuramente preferibile.

I farmaci attualmente approvati dalla FDA per il trattamento dell’osteoporosi maschile includono: bifosfonati, alendronato, risedronato e acido zoledronico; teriparatide e l’inibitore del RANKL denosumab.

Durata del trattamento

Come ogni malattia cronica permanente, l’osteoporosi è meglio gestita quando si procede con una terapia continuativa e un frequente monitoraggio. I benefici terapeutici, infatti, possono essere mantenuti solo con il trattamento.

Una volta interrotta la terapia farmacologica, ci si può aspettare che la BMD e il rischio di frattura ritornino ai valori di base o addirittura peggiori; nel caso dell’interruzione di bisfosfonati ciò avviene lentamente, mentre con l’interruzione di non bisfosfonati avviene una rapida ripresa del turnover osseo, perdita di materiale osseo e aumento del rischio di fratture spontanee.

Un trattamento efficace può aumentare la densità minerale ossea e ridurre le fratture, migliorando il T-score per la bassa massa ossea o addirittura portarlo a un livello fisiologico. Tuttavia, in una persona con una storia di osteoporosi, un T-score nell’intervallo osteopenico o normale non cambia la diagnosi: il paziente ha ancora l’osteoporosi.

La BMD può essere migliorata e il rischio di frattura ridotto; tuttavia, permane il deterioramento della microarchitettura, così come i processi patologici responsabili di tale deterioramento.

“Drug Holiday”

Per i pazienti in terapia con bifosfonati che sembrano avere un livello modesto di rischio di frattura (ad esempio un T-score > – 2,5 e nessuna frattura recente) l’interruzione temporanea (“vacanza”) può essere presa in considerazione dopo 3 anni con terapia endovenosa o 5 anni con terapia orale.

Una vacanza da bifosfonati è definita come una sospensione temporanea della terapia con bifosfonati (fino a 5 anni).

Per i pazienti che continuano a dimostrare un elevato rischio di frattura (ad es. T-score ≤ − 2,5 e/o frattura recente), la continuazione del trattamento con un bifosfonato o una terapia alternativa è la soluzione migliore, e si può portare avanti fino a 10 anni con un bifosfonato orale e fino a 6 anni con acido zoledronico via endovena annuale.

Per i pazienti trattati con un farmaco non bifosfonato, l’effetto terapeutico si dissipa rapidamente con la sospensione. Gli studi indicano che la sospensione di denosumab determina un aumento dei marker del turnover osseo, la riduzione della densità minerale ossea e aumento del rischio di multiple fratture vertebrali, soprattutto in pazienti con una precedente frattura vertebrale.

Riabilitazione e gestione del dolore

La cura del paziente dopo una frattura da fragilità è un processo complesso che coinvolge tre componenti: minimizzare il dolore, ridurre il rischio di fratture secondarie e migliorare la funzionalità. Una cura così sfaccettata si realizza nel modo più efficace quando c’è un vero gruppo sanitario coordinato da professionisti. Una leggera ma costante attività fisica seguita da un professionista è un grade supporto alla riabilitazione del paziente.

Poiché il dolore è una barriera fisica ed emotiva al movimento e all’attività, un’efficace gestione del dolore è una parte fondamentale per la riabilitazione delle fratture, conservazione del tessuto osseo e prevenzione di fratture secondarie.

Il dolore acuto si risolve tipicamente in 6-8 settimane dopo la frattura vertebrale. Tuttavia, alcune persone avvertono dolore per mesi o anni dopo che una completa guarigione della frattura. Un dolore persistente come questo può rendere difficile dormire, camminare e mangiare; può rendere una persona irritabile o depressa privandola dell’indipendenza e pertanto è un fattore da non sottovalutare per la qualità di vita del paziente.

Prevenzione delle fratture secondarie

Idealmente, tutti gli individui a rischio potrebbero essere identificati e gestiti per prevenire la loro prima frattura (prevenzione primaria). Negli ultimi anni sono stati apportati miglioramenti al rilevamento e alla gestione dell’osteoporosi nelle donne di età pari o superiore a 65 anni, ma ancora non sufficienti. Secondo i dati Medicare, in seguito a riparazione della frattura dell’anca, meno di 1 donna su 5 ha ricevuto la raccomandazione di ulteriori interventi, nonostante siano ad altissimo rischio per future fratture secondarie.

Altri studi hanno mostrato tassi ancora peggiori, fino al 95% di pazienti dimessi in seguito alla riparazione della frattura dell’anca senza la prescrizione di un trattamento anti-fratturativo.

Purtroppo la maggior parte dei pazienti non riconosce una frattura come sintomo di una malattia. I medici riscontrano una certa difficoltà nel convincere un paziente che inciampare e rompersi un osso non è sempre attribuibile alla sfortuna o una caduta particolarmente dura, ma può trattarsi di osteoporosi e, sono riconosciuta, porterò a ulteriori fratture, in particolare nel breve termine.

Capire il legame tra trattamento e frattura è fondamentale per motivare i pazienti a intraprendere le molteplici attività individuali necessarie per ridurre il rischio.

Linee guida per la prevenzione e trattamento dell’osteoporosi

La rilevazione dell’osteoporosi, la diagnosi e il trattamento dovrebbero essere pratiche di routine in tutti gli ambienti sanitari per adulti. La Bone Health and Osteoporosis Foundation (BHOF) – ex National Osteoporosis Foundation – ha pubblicato per la prima volta le linee guida nel 1999 per fornire informazioni accurate sulla prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi. Da quel momento sono stati apportati notevoli miglioramenti tecnologici e diagnostici per il trattamento dell’osteoporosi.

Raccomandazioni universali

Queste raccomandazioni sono applicabili a donne in post menopausa e uomini di 50 + anni.

  • Consigliare i singoli pazienti sul rischio di osteoporosi, fratture e potenziali conseguenze delle fratture
  • Raccomandare una dieta con un adeguato apporto di calcio
  • Monitorare i livelli sierici di 25-OH vitamina D e mantenerli nel giusto range (sopra i 30ng/mL ma sotto i 50 ng/mL)
  • Consigliare caldamente l’interruzione del consumo di tabacco e alcol eccessivo
  • Per gli anziani residenti in comunità valutare ed eventualmente migliorare i rischi di caduta
  • Prescrivere antidolorifici da banco per pazienti che hanno subito una frattura
  • Considerare qualsiasi frattura negli adulti come un sospetto sintomi di osteoporosi
  • Fare un report dettagliato della storia delle cadute del paziente
  • Svolgere test per la BDM nei pazienti a più alto rischio

Monitoraggio dei pazienti e risposta al trattamento

  • Valutare la BMD dopo 1 e 2 anni dall’inizio della terapia per osteoporosi ad intervalli appropriati in base al livello di rischio del paziente
  • Rivalutare periodicamente il livello di rischio di frattura, la soddisfazione e l’aderenza del paziente alla terapia

L’osteoporosi resta una malattia sottodiagnosticata e sottotrattata nonostante efficaci interventi antifratturativi e le conseguenze potenzialmente letali delle fratture. Tuttavia, ben l’80-95% dei pazienti in alcune strutture cliniche vengono dimessi in seguito alla riparazione della frattura dell’anca senza un trattamento o un piano di gestione antifratturativa.

Le fratture e le loro complicanze sono le conseguenze cliniche di osteoporosi. Le fratture più comuni sono quelle vertebrali (colonna lombare), femore prossimale (anca) e avambraccio (polso). La maggior parte delle fratture negli anziani sono dovute almeno in parte a una massa ossea ridotta, anche quando ci sono stati dei considerevoli traumi. Tutte le fratture sono associate ad un certo grado di bassa densità minerale ossea e aumento del rischio di successive fratture negli anziani.

Una frattura in qualunque parte dello scheletro che si verifichi in un adulto con più di 50 anni andrebbe considerata come un allarme che indica la necessità di ulteriori analisi per l’osteoporosi.

Ciclo di vita dello scheletro

Durante l’infanzia e l’adolescenza, le ossa subiscono un processo chiamato modellamento, durante il quale si forma nuovo osso in un sito e il vecchio osso viene rimosso da un altro sito all’interno dello stesso osso. Questo processo consente alle singole ossa di svilupparsi in dimensione, forma e posizione. Durante la rapida crescita scheletrica nell’infanzia e nell’adolescenza, ci vogliono diversi mesi per mineralizzare l’impalcatura proteica per nuovo osso, chiamato osteoide. Questo ritardo tra la formazione e la mineralizzazione produce periodi di densità ossea relativamente bassa e una maggiore propensione alla frattura. Al contrario la perdita di materiale osseo è associata all’anzianità, aumenta la porosità corticale e si assottigliano le trabecole ossee, creando le condizioni per una fragilità ossea e conseguenti fratture.

Rimodellamento osseo

Lo scheletro risponde dinamicamente a fattori ormonali, meccanici e a stimoli farmacologici attraverso il riassorbimento e la formazione nel processo di rimodellamento osseo, o turnover. Il rimodellamento viene avviato dalle cellule che riassorbono l’osso, gli osteoclasti, che distruggono e rimuovono l’osso danneggiato in un processo chiamato riassorbimento. L’osso scavato viene sostituito con nuovo osso prodotto dagli osteoblasti. I meccanismi che regolano la formazione ossea coinvolgono interazioni complesse che sono in parte mediate da cellule chiamate osteociti. Gli osteociti svolgono un ruolo sia nella formazione che nel rimodellamento osseo.

Valutazione dei rischi di frattura

Tutte le donne in postmenopausa e gli uomini di età pari o superiore a 50 anni dovrebbe essere valutati per il rischio di osteoporosi. In generale, più fattori di rischio ci sono, maggiore è la probabilità che un paziente si fratturi. Le fratture osteoporotiche sono prevenibili. Anche dopo una frattura, l’osteoporosi si può tenere monitorata. Tuttavia, poiché non ci sono segnali di allarme, molte persone affette da osteoporosi non vengono diagnosticate finché non si verifica una frattura. Inoltre la maggior parte delle fratture negli adulti è dovuta a una caduta, e per questo non viene indagato oltre sullo stato di salute delle loro ossa. Per prevenire le fratture secondarie, oltre alle analisi di BMD occorre anche informare il medico delle cadute pregresse, campanello di allarme per una diagnosi di osteoporosi.

Misurazione della densità minerale ossea

La misurazione DXA del bacino e della colonna vertebrale lombare è il metodo più usato per stabilire o confermare la diagnosi di osteoporosi, per valutare i futuri rischi di frattura e per monitorare i pazienti già in cura. La densità minerale ossea misurata con la DXA viene espressa in grammi di minerali per centimetro quadrato; la BDM di un individuo è riportata come la deviazione standard maggiore o minore rispetto alla BMD media. La BMD è stata dimostrata essere strettamente correlata alla forza delle ossa: maggiore è l’incremento della BMD e maggiore sarà la riduzione del rischio di nuove fratture.

Tuttavia queste standardizzazioni diagnostiche non possono essere applicate a qualsiasi soggetto. Le donne in premenopausa, uomini sotto i 50 anni e i bambini non possono essere diagnosticati solo sulla base della densitometria ossea. La decisione di eseguire la misurazione iniziale della densità ossea dovrebbe basarsi sul profilo di rischio di frattura dell’individuo e sui marcatori della salute scheletrica.

Marker biochimici del turnover osseo

La misurazione dei marker biochimici del turnover osseo (BTM) gioca un ruolo essenziale nel valutare il rischio di fratture in determinati individui, per esempio nelle donne in trattamento per cancro al seno c’è una forte perdita di materiale osseo.

I prodotti del rimodellamento osseo possono essere misurati come marcatori dell’attività di turnover; i più importanti tra questi sono il marker del riassorbimento osseo nel siero C-telopeptide (CTX) e nelle urine N-telopeptide (NTX), il marker di formazione ossea nel siero il peptide amino-terminale del collagene di tipo 1 (P1NP). I BTM possono:

  • Predire la rapidità di perdita di materiale osseo in una donna in post menopausa
  • Predire la riduzione del rischio di fratture quando vengono misurati dopo 3-6 mesi dall’inizio del trattamento
  • Possono suggerire quando ricominciare la terapia in caso di sospensione dell’uso di bisfosfonati.

Adeguata assunzione di calcio e vitamina D

Un apporto sufficiente di calcio è necessario per raggiungere il picco di massa ossea e mantenimento della salute delle ossa nel corso della vita. Lo scheletro contiene il 99% delle riserve di calcio del corpo; quando l’apporto dall’esterno è inadeguato, il tessuto osseo viene riassorbito dallo scheletro per mantenere costanti i livelli di calcio sierico.

Non ci sono prove che l’assunzione di calcio in eccesso rispetto alle quantità raccomandate conferisca ulteriore benessere osseo. Tuttavia, ci sono prove che l’assunzione di calcio superiore a 1200-1500 mg/giorno può aumentare il rischio di sviluppare calcoli renali in pazienti predisposti.

La vitamina D facilita l’assorbimento del calcio necessario per la mineralizzazione delle ossa. Il BHOF consiglia un’assunzione quotidiana da 800 a 1000 unità di vitamina D per gli adulti di età pari o superiore a 50 anni. Le raccomandazioni sulla vitamina D sono basate sull’assunzione minima per mantenere i livelli di 25(OH)D sierici di 20 ng/mL; livelli leggermente più alti, intorno ai 30 ng/mL sono associati a un assorbimento ottimale del cacio.

Inibitori della pompa protonica e densità ossea negli anziani

Gli inibitori della pompa protonica (PPI) sono farmaci molto efficaci del trattamento e nella prevenzione di disturbi gastrointestinali quali ulcere peptiche, reflusso gastroesofageo ed esofagiti erosive. Sono stati introdotti nel mercato farmaceutico all’inizio degli anni 80 e da allora sono una delle classi di farmaci maggiormente prescritte per i disturbi gastrointestinali del tratto superiore, soprattutto tra gli anziani, anche grazie alla disponibilità di biosimilari e al loro acquisto senza ricetta. Purtroppo però questa facile reperibilità del prodotto fa si che tra il 50 e l’80% dei pazienti lo assuma in maniera impropria.

Effetti avversi

Proprio a causa dell’uso consistente dei PPI sono stati evidenziati numerosi effetti collaterali, sviluppati principalmente in chi fa uso cronico del medicinale e negli individui più deboli come gli anziani. In questa popolazione la soppressione cronica dell’acidità indotta dai PPI è stata associata ad un aumento del rischio di polmonite acquisita in comunità, infezioni da C. difficile e malnutrizione inclusa ipomagnesiemia. Inoltre, i PPI condividono vie metaboliche comuni con diverse classi di farmaci come i farmaci antinfiammatori, antiaggreganti non steroidei e i bifosfonati, la cui efficacia potrebbe essere ridotta dall’uso dei PPI.

I cambiamenti legati all’età nella massa ossea, nella densità minerale ossea (BMD), nella geometria e nell’architettura ossea, nello spessore dell’osso corticale e nella porosità trabecolare influiscono negativamente sulla resistenza ossea, uno dei determinanti più importanti delle fratture. Il rimodellamento osseo è più veloce e significativamente più evidente nell’osso trabecolare e, per quanto ne sappiamo, i cambiamenti nell’osso trabecolare si verificano nelle prime fasi del percorso verso l’osteoporosi conclamata. L’uso dei PPI potrebbe esacerbare le modifiche legate all’età nella densità e nella forza ossea.

Nonostante la crescente evidenza di una relazione tra PPI e fratture ossee, pochi studi hanno esplorato l’ipotesi che l’uso dei PPI possa essere associato al deterioramento della densità ossea e della geometria strutturale.

Struttura dello studio

InCHIANTI è uno studio epidemiologico sui fattori di rischio per la disabilità motoria nell’anziano, disegnato dal Laboratorio di Epidemiologia Clinica del Consiglio Italiano delle Ricerche sull’Invecchiamento (Firenze), e condotto su un campione rappresentativo di una popolazione residente in Toscana. La popolazione finale era composta da 1038 partecipanti (452 uomini e 586 donne) con dati completi su scansioni di tomografia computerizzata quantitativa periferica (pQCT), assunzioni di farmaci e altre variabili utilizzate nell’analisi qui presentata. In particolare è stata misurata la pQCT perché questa tecnica è stata dimostrata come una delle più efficaci nella valutazione dell’osteoporosi e nella previsione del rischio di fratture osteoporotiche.

Nell’analisi condotta in questo studio sono stati considerati diversi parametri ossei derivati dalle immagini pQCT. La BMD volumetrica trabecolare (vBMDt) (mg/cm3) è stata definita come la densità media dell’area ossea trabecolare rilevata nel sito del 4% della lunghezza tibiale. La BMD volumetrica corticale (vBMDc) (mg/cm3), una misura selettiva della densità volumetrica apparente dell’osso corticale e un indicatore delle proprietà del materiale osseo, è stata misurata nel sito del 38% della lunghezza tibiale. L’area della sezione trasversale ossea totale (tCSA) (mm2), misura della dimensione dell’osso, è stata definita come area all’interno della circonferenza che delimitava tutti i tessuti ossei corticali con una densità superiore a 180 mg/cm3 e misurata nel sito del 38% della lunghezza tibiale.

Sono state condotte anche delle analisi di laboratorio che sono andate a misurare i livelli nel sangue dei seguenti marcatori: 25(OH)-vitamina D, PTH, IGF-1 totale, testosterone, estradiolo (E2) e interleuchina-6 (IL-6).

Infine è stato preso in considerazione anche lo stato di salute cognitivo; la prestazione cognitiva globale è stata valutata utilizzando il Mini-Mental State Examination (MMSE) eseguito da un geriatra esperto entro una settimana dal prelievo di sangue. Il livello di attività fisica nell’anno precedente all’intervista è stato classificato su una scala ordinale basata sulle risposte ad un questionario standard modificato.

I risultati

Le caratteristiche dei partecipanti sono state presentate per l’intero campione e i partecipanti sono stati classificati in base all’utilizzo dei PPI. La prevalenza dell’uso di PPI tra gli anziani residenti nella comunità dell’InChianti è stata del 3,4%. La maggior parte delle persone assumeva PPI (70%) a causa della gastroprotezione durante il trattamento con FANS o con aspirina cronica; il restante 30% era in terapia con PPI a causa dell’ulcera peptica gastrointestinale. L’età media dell’intera popolazione era di 75,7±7,4 anni. Gli utilizzatori di PPI di sesso maschile erano più anziani rispetto ai non utilizzatori, mentre gli utilizzatori di PPI di sesso femminile erano più giovani rispetto ai non utilizzatori. Dopo l’aggiustamento per età, le utilizzatrici e le non utilizzatrici di PPI non differivano significativamente nei livelli di estradiolo e di testosterone biodisponibile. Allo stesso modo, gli utilizzatori maschi e i non utilizzatori di PPI non hanno mostrato differenze nei livelli di estradiolo e di testosterone biodisponibile.

Rispetto ai non utilizzatori, gli utilizzatori di PPI avevano una BMI significativamente più bassa (25,8±4,1 vs 27,5±4,0), livelli più bassi di testosterone biodisponibile e IGF-1, mentre i livelli di E2 erano simili nei due gruppi. Dopo l’aggiustamento per età e sesso, gli utilizzatori di PPI hanno mostrato un vBMDt significativamente inferiore rispetto ai non utilizzatori (180,2 ± 54,0 vs 207,6 ± 59,4). Non è stata osservata alcuna differenza significativa nel totale di vBMD, vBMDc, misure della dimensione ossea e marcatori di resistenza ossea tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI.

Dopo l’adeguamento per molteplici potenziali predittori di vBMDt come apporto calorico, PTH, vitamina D, assunzione di calcio, livelli di E2, IL-6, IGF-1 e Bio-T, la relazione tra uso di PPI e vBMDt è rimasta statisticamente significativa. Per distinguere i bias di indicazione abbiamo anche testato le differenze nelle misure pQCT negli utilizzatori e nei non utilizzatori di anti-H2; 12 partecipanti sono stati identificati come utilizzatori di bloccanti H2 (1,16% dell’intera popolazione). Dopo l’aggiustamento per età e sesso, non è stata riscontrata alcuna relazione significativa tra l’uso di bloccanti H2 e BMD, vBMDc o vBMDt.

Analisi dei dati

Si tratta del primo studio che va a valutare i parametri di massa e geometria ossea in relazione all’utilizzo di PPI nei pazienti anziani.

I risultati dello studio hanno escluso qualsiasi associazione significativa tra l’uso dei PPI e la geometria ossea. Questi dati non sorprendono perché i parametri della geometria ossea sono fortemente correlati alla stimolazione meccanica ossea piuttosto che ad altri modulatori farmacologici. Al contrario, è stata trovata una relazione significativa tra l’uso dei PPI e vBMDt.

È più probabile che l’area trabecolare sia sensibile a diversi fattori metabolici e farmacologici rispetto alla corticale e potrebbe essere considerata la parte “metabolicamente attiva” dell’osso. L’osso trabecolare risponde rapidamente agli stimoli meccanici, ai fattori di crescita circolanti e alle citochine, perché le sue cellule ossee primarie (situate nella superficie) sono nelle loro più strette vicinanze. Al contrario, l’osso corticale è principalmente coinvolto nel conferire resistenza ossea complessiva. Interferendo con il metabolismo minerale, i PPI conferiscono un rischio maggiore di fratture attraverso effetti dannosi sull’osso trabecolare. Questi farmaci agiscono direttamente sull’osso metabolicamente più attivo e possono peggiorarne la qualità e il metabolismo minerale senza influenzare la geometria ossea. Inoltre, i cambiamenti della qualità ossea legati all’età aumentano di per sé il rischio di fratture e morbilità.

Sono state proposte alcune ipotesi per giustificare la relazione tra PPI e fratture ossee; tuttavia, i meccanismi alla base di questa associazione non sono ancora chiari.

Le ipotesi

I PPI potrebbero esercitare un’interferenza farmacologica con i bifosfonati orali, in particolare con l’acido alendronico, il farmaco più utilizzato per l’osteoporosi nella popolazione anziana. Escludendo le persone che assumono farmaci che interferiscono con il metabolismo osseo, si esclude anche la plausibilità di tale meccanismo.

Un’altra ipotesi riguarda la correlazione tra ipocloridria e la riduzione della proteolisi gastrica da parte dei PPI. Come conseguenza dell’ipocloridria si verifica una diminuzione della biodisponibilità o un ridotto assorbimento di importanti micronutrienti e vitamine coinvolti nel metabolismo osseo come calcio, magnesio e vitamina B-12. Nonostante il potenziale legame tra uso di PPI e calcio, non è stata riscontrata alcuna differenza significativa nei livelli sierici di calcio tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI.

Inoltre, la soppressione cronica dell’acido gastrico indotta dai PPI provoca ipergastrinemia. Sia l’ipergastrinemia che la ridotta biodisponibilità del calcio potrebbero influenzare negativamente il metabolismo osseo e minerale, probabilmente attraverso l’induzione di iperplasia e ipertrofia delle ghiandole paratiroidi con conseguente aumento dei livelli di PTH. La secrezione persistentemente elevata di PTH in relazione alla concentrazione sierica di calcio può portare ad un aumento del rischio di fratture a causa della perdita di resistenza e qualità ossea, tuttavia, lo studio non evidenzia alcuna differenza significativa nei livelli di PTH tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI. Un’altra interessante ipotesi alla base della relazione negativa tra uso di PPI e fratture è stata legata alla nota interferenza di questa classe di farmaci con l’assorbimento e l’escrezione del magnesio; sono stati infatti segnalati molti casi di ipomagnesiemia sono stati osservati in pazienti in trattamento con PPI a lungo termine. Anche in questo caso però lo studio non ha evidenziato una differenza significativa nei livelli di magnesio tra gli utilizzatori di PPI e i non utilizzatori.

Denosumab: efficacia del trattamento per osteoporosi

L’osteoporosi è maggiormente comune nelle donne in postmenopausa, in quanto la mancanza di estrogeni porta ad un aumento del turnover osseo con una perdita di materiale osseo a causa del riassorbimento che supera il processo di formazione. Esistono diversi trattamenti per questa malattia, uno dei più noti è anticorpo monoclonale denosumab; questa review ha lo scopo di riassumere i dati più rilevanti tratti dagli studi su denosumab in donne in postmenopausa.

Proprietà farmacodinamiche

Denosumab lega selettivamente RANKL (receptor activator of NFkB ligand), impedendogli di interagire e attivare RANK (il suo recettore) sulla superficie degli osteoclasti e dei loro precursori. Di conseguenza la formazione, il funzionamento e la sopravvivenza degli osteoclasti è inibita, portando ad una riduzione del riassorbimento osseo.

I livelli nel siero di marker del riassorbimento osseo calano velocemente dopo una dose da 60mg di denosumab sottocutaneo in donne in postmenopausa con osteoporosi o con una bassa densità minerale ossea (BMD). Il trial clinico più grande e maggiormente riconosciuto è il FREEDOM, durante il quale il denosumab nelle condizioni precedentemente menzionate è stato comparato all’effetto placebo dopo 1, 6 e 36 mesi; è stata subito evidente la riduzione rispettivamente del 86, 72 e 72% dei livelli di collagene di tipo 1 C-telopeptide (CTX), uno dei più importanti marker del riassorbimento osseo, e del 18, 50 e 76% dei livelli di procollagene tipo 1 N-terminale (P1NP), marker della rigenerazione ossea.

I marker del turnover osseo (BTM) hanno dimostrato di diminuire per tutta la durata della terapia, che per i pazienti che hanno acconsentito a partecipare all’estensione dello studio clinico FREEDOM è stata di 10 anni. IL BTM tende a incrementare nuovamente verso la fine di ciascun intervallo di tempo che intercorre tra una somministrazione di denosumab e l’altra, probabilmente a causa della sintesi compensatoria di RANKL.

Gli studi sulla farmacodinamica non hanno evidenziato eventi avversi sulla mineralizzazione dell’osso, sulla microarchitettura o sulla formazione di osso lamellare; sul lungo termine è stato osservato che il turnover osseo rimane basso e che la microarchitettura dell’osso viene mantenuta per un periodo di 10 anni nei pazienti che hanno proseguito la terapia sino a questo punto.

Il confronto

Negli studi di confronto analizzati a 1 anno, denosumab sottocutaneo 60 mg è stato generalmente più efficace rispetto ai regimi con bifosfonati nel ridurre le misure di turnover osseo in donne PM con bassa BMD o osteoporosi. Ad esempio, denosumab ha significativamente ridotto i livelli sierici di CTX e P1NP rispetto all’alendronato orale 70 mg una volta alla settimana in tutte o nella maggior parte delle tempistiche valutate (1,2,6,9 e 12 mesi) anche nei pazienti che avevano ricevuto alendronato per più di 6 mesi.

Allo stesso modo, in un altro studio, i pazienti che ricevevano un regime di bifosfonati orali e che passavano a denosumab hanno avuto riduzioni significativamente maggiori dei livelli sierici di CTX (in tutte le tempistiche analizzate dopo il giorno 10) e di P1NP dopo un mese e dal terzo mese in avanti rispetto a coloro che sono passati all’acido zoledronico 5 mg per via endovenosa una volta all’anno.

In particolare, il denosumab (a differenza dei bifosfonati) non viene incorporato nell’osso e, di conseguenza, i suoi effetti sulle BTM, sulla BMD e sulle misure istomorfometriche sono in genere reversibili dopo la sua interruzione.

Efficacia terapeutica

La sperimentazione di fase 3 di tre anni e la sua estensione di 7 anni forniscono i dati più completi a lungo termine per il trattamento con denosumab e per questo è oggetto di questa review.

Rischio di fratture

Il denosumab è risultato efficace nel ridurre il rischio di fratture nelle donne con osteoporosi da PM; nell’arco di 3 anni, denosumab ha significativamente ridotto il rischio di nuove fratture vertebrali del 68% (endpoint primario), di fratture non vertebrali del 20% e di fratture dell’anca del 40% rispetto al placebo.

A lungo termine, il beneficio antifrattura di denosumab si è mantenuto fino a 10 anni di trattamento, secondo i dati ricavati dall’estensione di FREEDOM. Tra i pazienti originariamente randomizzati a denosumab che hanno continuato il trattamento nell’estensione, l’incidenza annuale di nuove fratture vertebrali, non vertebrali e dell’anca è rimasta bassa negli anni da 1 a 7 dell’estensione similmente a quella degli anni 1-3 dello studio principale. I risultati dello studio FREEDOM sono supportati dallo studio DIRECT, sicuramente più piccolo ma ugualmente randomizzato, a doppio cieco e in fase tre, in cui pazienti giapponesi con osteoporosi (il 95% dei quali donne in postmenopausa) hanno avuto una significativa riduzione del rischio di fratture vertebrali (del 66% all’endpoint primario) con il denosumab rispetto al placebo. Il farmaco si è rivelato inoltre più efficace nella riduzione del rischio di frattura rispetto all’alendronato.

Densità minerale ossea

La BMD, misurata con DXA, è significativamente migliorata nei tre anni di FREEDOM, nei pazienti che hanno assunto denosumab rispetto al placebo, in diverse aree dello scheletro, inclusi il bacino, il rachide lombare e il collo del femore. Inoltre, durante l’estensione dello studio, si è continuato ad osservare un progressivo incremento della BMD associato a denosumab per tutti i 10 anni di terapia, con nessuna evidenza di raggiungimento di un plateau.

È emerso che il denosumab sottocutaneo è stato più efficace rispetto ai regimi con bifosfonati nell’aumentare la BMD nelle donne in postmenopausa con bassa BMD o osteoporosi. Il denosumab ha aumentato significativamente la BMD dell’anca totale (endpoint primario), della colonna lombare (anch’esso endpoint primario), del collo del femore e/o di un terzo del radio rispetto all’alendronato orale somministrato una volta alla settimana.

Ulteriori parametri analizzati

Coerentemente con i miglioramenti della BMD osservati con denosumab, la resistenza ossea è aumentata con il farmaco in vari siti nell’arco di 3 anni nelle analisi di FREEDOM. Per esempio, in un’analisi parallela (n = 99 valutati) il farmaco ha aumentato significativamente la forza stimata dell’osso a livello dell’anca e della colonna vertebrale rispetto al placebo a 1, 2 e 3 anni, come misurato dall’analisi degli elementi finiti basata sulla QCT.

Altri parametri ossei valutati in modo simile, tra cui porosità, spessore e massa, sono anch’essi migliorati con denosumab in vari siti negli studi secondari FREEDOM; ad esempio, in 3 anni di trattamento con denosumab è significativamente aumentato lo spessore corticale e la massa del femore prossimale, e si è ridotta significativamente la porosità in tutte le regioni corticali, con quest’ultimo miglioramento correlato a una maggiore resistenza ossea.

Come è tipico delle terapie per l’osteoporosi, la qualità di vita correlata alla salute non è migliorata con denosumab nei tre anni di trattamento durante il trial FREEDOM, con cambiamenti medi rispetto al valore basale nei punteggi delle funzionalità fisiche, dello stato emotivo e del dolore alla schiena secondo il questionario di valutazione dell’osteoporosi, i cui risultati non differiscono significativamente tra i riceventi denosumab e placebo.

I risultati del questionario di preferenza e soddisfazione ha però sottolineato che la grande maggioranza dei pazienti ha preferito aderire alla terapia con le iniezioni subcutanee rispetto all’ingerimento della capsule orali dell’alendronato. La persistenza e l’aderenza al trattamento con denosumab in due diversi studi è stata dell’82% a 12 mesi e del 59% a 24 mesi,  un risultato notevolmente più favorevole rispetto ai dati di persistenza dei bifosfonati orali ottenuti da una meta-analisi (45 e 30% a 12 e 24 mesi).

Tolleranza al farmaco

Denosumab 60 mg, somministrato ogni 6 mesi tramite iniezione sottocutanea, è stato generalmente ben tollerato per un periodo fino a 10 anni in donne PM con bassa BMD o osteoporosi (incluse quelle ad alto rischio di frattura o con insufficienza renale).

Nell’arco di 3 anni in FREEDOM, denosumab non si è differenziato significativamente rispetto al placebo nella percentuale di pazienti che hanno manifestato eventi avversi (AE) emersi durante il trattamento (93 vs. 93%), eventi gravi con necessità di trattamento (TEAE) (26 vs. 25%), morte (1.8 vs. 2.3%) o interruzione del farmaco in studio a causa di TEAE (4,9 vs. 5,2%).

Tra i TEAE, eczema (3,0 vs. 1,7%) e flatulenza (2,2 vs. 1,4%) si sono verificati in un numero significativamente maggiore in denosumab rispetto al placebo, mentre il contrario per le cadute non correlate alla frattura. La tolleranza al denosumab è rimasta costante per tutta la durata del trattamento, anche quello esteso a 10 anni.

Dettaglio molto importante è la reversibilità del trattamento, ovvero che il turnover osseo e la BMD possono tornare ai livelli basali dopo l’interruzione del farmaco, facendo sorgere legittimi dubbi sul fatto che i pazienti possano incorrere in una maggior fragilità ossea dopo la sospensione, motivo per cui viene consigliata una terapia di mantenimento.

Dosaggio e somministrazione

Per il trattamento di donne PM con osteoporosi che hanno un rischio aumentato o elevato di frattura o che hanno fallito o sono intolleranti ad altre terapie per l’osteoporosi disponibili, il dosaggio raccomandato di denosumab nell’Unione Europea e negli Stati Uniti è di 60 mg somministrati ogni sei mesi attraverso una singola iniezione sottocutanea nell’addome, nella parte superiore del braccio o della coscia. I pazienti devono inoltre ricevere un’adeguata integrazione di calcio e vitamina D, particolarmente importante per i pazienti con grave insufficienza renale o in dialisi, a causa dell’aumento del rischio di ipocalcemia. Inoltre va ricordato che denosumab non va somministrato in concomitanza con altri farmaci contenenti la stessa molecola.

Conclusioni

La scelta di una terapia appropriata richiede la considerazione dell’efficacia antifratturativa, tollerabilità e del costo, anche se l’opzione di prima linea per la maggior parte dei pazienti dovrebbe essere un agente con efficacia antifratturativa ad ampio spettro, tra cui alcuni bifosfonati (alendronato, risedronato e acido zoledronico) e il denosumab. Per i pazienti che non possono assumere bifosfonati orali (per ragioni come la tollerabilità o le controindicazioni) o con il più alto rischio di fratture, la somministrazione di denosumab o acido zoledronico endovenoso sono i trattamenti da preferire.

Il denosumab riduce il turnover osseo inibendo la formazione, la funzione e la sopravvivenza degli osteoclasti prevenendo l’interazione RANKL-RANK. Nel più ampio studio su denosumab in questo contesto (FREEDOM), il farmaco ha ridotto il rischio di fratture vertebrali, non vertebrali e dell’anca, e ha aumentato la BMD in vari siti anatomici per 3 anni. Inoltre, le donne che hanno continuato il farmaco nell’estensione di ulteriori 7 anni hanno continuato a trarre benefici antifratturativi e (a differenza di altri antiriassorbitivi) hanno continuato a guadagnare in BMD fino a 10 anni di terapia.

Infine nella buona riuscita di questo grande trial FREEDOM ha un merito il metodo di somministrazione, infatti i trattamenti che vengono somministrati meno frequentemente sono generalmente considerati preferibili, dai pazienti e dai medici, rispetto alla somministrazione giornaliera del farmaco.

Trattamenti farmacologici per l’osteoporosi maschile

L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una ridotta massa ossea e da un deterioramento microarchitettonico del tessuto osseo, che porta a un aumento della fragilità ossea e delle fratture. Queste ultime rappresentano un grave problema di salute conseguente all’osteoporosi, che comporta un aumento del rischio di mortalità, disabilità, perdita di indipendenza e aumento dei costi medici. In tutto il mondo, il 23% delle donne e il 12% degli uomini è affetto da osteoporosi, con una prevalenza che aumenta significativamente con l’età; è stato evidenziato che le fratture negli uomini sono associate a maggiori complicazioni e un maggior bisogno di cure a lungo termine.

Negli anni sono stati sviluppati diversi trattamenti farmacologici per ridurre il rischio di fratture in pazienti con osteoporosi, rivelando la loro efficacia, comprendendo però negli studi clinici principalmente donne in postmenopausa. È invece ormai accettato dalle agenzie regolatorie la concessione dell’immissione in commercio di questi farmaci anche per gli uomini affetti da osteoporosi, a seguito di alcuni studi integrativi.

In questi studi, il risultato primario non è più il rischio di frattura, ma piuttosto un aumento della densità minerale ossea (BMD) simile a quello osservato nelle donne. I requisiti per questi trial clinici di integrazione del sesso maschile includono l’uso della stessa formulazione, dose e via di somministrazione; l’inclusione della popolazione maschile con lo stesso rischio di frattura delle donne in postmenopausa prese in analisi precedentemente; cambiamenti di BMD simili alle donne in uno studio della durata di un anno.

Nonostante l’efficacia del trattamento farmacologico sugli uomini è meno studiata rispetto alle donne, alcuni studi pubblicati recentemente hanno evidenziato dei risultati simili negli uomini. L’obiettivo di questa review è quindi identificare e riportare l’efficacia degli interventi farmacologici contro l’osteoporosi negli uomini attraverso una meta-analisi.

Caratteristiche degli studi

Gli studi presi in considerazione sono stati pubblicati tra il 2003 e il 2022 e il numero di pazienti inclusi negli studi varia da 20 nello studio di Matsumoto et al. a 1199 nello studio di Boonen et al.; di 21 studi randomizzati controllati 16 erano in doppio cieco. È stata analizzata l’efficacia di 8 diversi trattamenti per osteoporosi: aledronato (=8), risedronato (=3), acido zoledronico (=3), ibandronato (=1), denosumab (=2). Teriparatide (=5), abaloparatide (=2) e romosozumab (=1); la maggioranza degli studi ha somministrato un placebo come controllo.

La durata media dei trattamenti è stata di 78 settimane e per quanto riguarda l’outcome primario tutti gli studi hanno riportato la misurazione della BMD, in particolare in 14 studi è stata analizzata la BMD del rachide lombare; l’incidenza di frattura è stata riportata in 16 studi ma soltanto 4 l’hanno considerata come outcome primario.

Effetti dei bisfosfonati versus placebo sulla BMD

Dieci studi su 2992 uomini con osteoporosi hanno comparato il trattamento con bisfosfonati rispetto al placebo, per una durata che è andata da 6 mesi a 3 anni.

Cinque studi, su 553 uomini con osteoporosi, hanno comparato l’alendronato al placebo evidenziando i seguenti risultati: l’alendronato ha significativamente aumentato la BMD del rachide lombare del 5.2%, dell’anca in toto dl 2.34% e del collo del femore del 2.53%. Due studi su 600 uomini con osteoporosi hanno analizzato i risultati del trattamento con risedronato vs placebo dopo 2 anni e il farmaco è risultato efficace su tutti i principali outcome analizzati, ad eccezione dell’incidenza di fratture. Nuovamente due studi, che hanno incluso un campione di 1707 uomini con osteoporosi trattati per due anni, hanno comparato l’acido zoledronico con il placebo. In particolare lo studio di Boonen et al. del 2012 ha riportato un significativo miglioramento della BMD del racide lombare e del collo del femore. Risultati molto simili sono stati osservati nel trattamento con ibandronato.

Effetti di altri trattamenti versus placebo sulla BMD

Due studi randomizzati controllati hanno analizzato l’efficacia del trattamento con denosumab rispetto al placebo per due anni, con iniezioni di 60mg di denosumab ogni 6 mesi. Un significativo aumento della BMD è stato osservato nel rachide lombare, con un aumento del 5.8%; significativo seppur minore nel femore in toto (2.28%) e un aumento di circa il 2% nel collo del femore.

Per quanto riguarda la teriparatide è stata paragonata al placebo in due studi su 309 uomini con osteoporosi con effetti positivi simili ai precedenti sia nella BMD del rachide lombare sia nel collo del femore.

Un solo studio è stato effettuato sull’analisi dell’efficacia del romosozumab rispetto al placebo, della durata di 12 mesi. A 163 pazienti è stata somministrata un’iniezione di 210 mg di romosozumab al mese e sono stati paragonati a 82 pazienti che hanno ricevuto il placebo; la variazione percentuale media della BMD rispetto al valore basale per il rachide lombare, il femore e il collo del femore è risultata significativamente maggiore nei pazienti che hanno ricevuto il farmaco rispetto al placebo.

Sono stati presi in analisi anche quattro studi che hanno messo a confronto due farmaci tra loro. Due di loro hanno comparato l’efficacia della teriparative versus aledronato, uno ha comparato la teriparatide al risedronato e l’ultimo ha comparato l’effetto dell’alendronato rispetto all’acido zoledronico. Nessuno di questi casi studio ha evidenziato delle differenze significative tra i vari gruppi; è stata stabilita la “non inferiorità” dell’acido zoledronico rispetto all’aledronato, ma non è stata dimostrata la sua superiorità.

Effetti sulle fratture

In 16 studi su 21 è stato riportato anche l’effetto del trattamento sull’incidenza di fratture, ma soltanto 4 di questi studi lo hanno definito il loro outcome primario. Il tasso di ogni nuova frattura vertebrale morfometrica è stato dell’1,6% nel gruppo acido zoledronico e del 4,9% nel gruppo placebo nel corso dei 24 mesi, con una riduzione del rischio del 67% con l’acido zoledronico.

Conclusioni

Questa meta-analisi sistematica fornisce le prove che alendronato, risedronato, acido zoledronico, ibandronato, denosumab, teriparatide abaloparatide e romosozumab hanno un effetto benefico sulla BMD del rachide lombare, dell’anca totale e del collo femorale di uomini affetti da osteoporosi paragonati all’effetto del placebo. Queste significative evidenze, tuttavia, riscontrano delle contraddizioni a causa del basso numero di studi inclusi nell’analisi ma soprattutto dall’eterogeneità inspiegabile osservata in alcuni confronti. È comunque sicuro affermare che l’osteoporosi maschile può essere trattata con le stesse terapie raccomandate per le donne con osteoporosi in postmenopausa.

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