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Prevenire la perdita ossea indotta dagli inibitori dell’aromatasi

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Gli inibitori delle aromatasi hanno un ruolo fondamentale nel trattamento adiuvante delle donne in postmenopausa con tumore al seno positivo al recettore ormonale. Tuttavia, sebbene molte delle pazienti trattate in questo modo abbiano un’eccellente prognosi a lungo termine, gli effetti avversi sul metabolismo osseo rappresentano una sfida clinica importante. Le donne trattate con inibitori dell’aromatasi risultano infatti soggette a una sostanziale riduzione della densità ossea e a fratture da fragilità. Lo studio “Challenges in preventing bone loss induced by aromatase inhibitors” offre una panoramica sugli effetti degli inibitori dell’aromatasi sulla salute delle ossa e fornisce un aggiornamento sugli approcci clinici disponibili per contrastare questa azione.

Inibitori dell’aromatasi

In condizioni fisiologiche, nelle donne in postmenopausa gli ormoni steroidei possono essere convertiti in estrogeni dall’enzima aromatasi (CYP19A1) mediante un’aromatizzazione dell’anello A dello sterano. Nel cancro al seno, un aumento locale dell’aromatizzazione di androgeni all’interno del microambiente tumorale ne favorisce la crescita. L’aromatasi è altamente espressa nel tessuto adiposo e del seno, il che comporta livelli più elevati di estrogeni residui nelle donne obese.
Per limitare l’attività enzimatica del CYP19A1 sono stati sviluppati degli inibitori dell’aromatasi (IA) in grado di sopprimere l’80-95% della sintesi di estrogeni residui nelle donne in postmenopausa, fino a ridurre gli estrogeni circolanti a livelli quasi impercettibili in vivo. Attualmente, vi sono tre IA di terza generazione approvate: anastrozolo, texemestano e letrozol.

Effetti degli inibitori dell’aromatasi sulla salute delle ossa

Anastrozolo

Sono stati pubblicati diversi studi che hanno affrontato in modo specifico gli effetti della IA sullo scheletro. Uno studio ha rilevato che, dopo cinque anni di trattamento con anastrozolo, si è verificata una perdita ossea del 6,1% nel tratto lombare della colonna vertebrale e del 7,2% all’anca. Al contrario il tamoxifene ha mostrato un effetto protettivo osseo con un aumento della densità minerale ossea (BMD) rispettivamente del 2,8% e dello 0,7%. In seguito alla cessazione della terapia con anastrozolo, è stato riportato un parziale recupero della BMD alla colonna vertebrale, ma non all’anca.

Letrozolo ed esemestrano

Uno studio di confronto tra letrozolo e tamoxifene ha riportato un tasso di fratture più elevato tra i pazienti trattati con letrozolo (9,3%). Il passaggio dal tamoxifene all’exemestane ha portato a una perdita ossea già sei mesi dopo l’inizio della terapia e questi effetti si sono prolungati fino al secondo anno. A conferma del ruolo dell’exemestane, i ricercatori riportano il fatto che dopo l’interruzione del trattamento si è osservata una reversione nella BMD e i tassi di frattura sono tornati paragonabili a quelli osservati con tamoxifene. A differenza dell’anastrozolo, l’exemestane esercita effetti blandamente androgenici che potrebbero tradursi in un profilo farmacologico più “favorevole alle ossa” sebbene vi siano poche prove cliniche a sostegno di questa ipotesi. Studi in vitro hanno dimostrato gli effetti stimolanti dell’exemestane sulle linee cellulari osteoblastiche.

Il peso delle genetica

È stato dimostrato che le differenze genetiche possono modulare l’entità della perdita ossea dovuta agli inibitori dell’aromatasi. Il polimorfismo nel gene CYP19A1, infatti, è stato associato a un aumento del rischio di perdita ossea durante la terapia con IA. Inoltre, polimorfismi del gene CYP19A1 sono stati associati a cambiamenti nella composizione corporea nelle donne trattate con inibitori dell’aromatasi. Le donne con il genotipo GG per il polimorfismo rs700518 del gene CYP19A1 hanno sperimentato una significativa diminuzione della massa magra. Tuttavia, i ricercatori auspicano studi più ampi per capire se questi risultati si traducono in anomalie metaboliche clinicamente rilevanti.

Nessuna differenza tra i diversi IA

Non sono molti gli studi che hanno confrontato gli effetti sul metabolismo osseo da parte dei diversi inibitori ma da quei pochi non sono emerse differenze significative. Uno studio di comparazione tra exemestane e anastrozolo ha rivelato una differenza significativa ma ridotta (31% contro il 35%) nel numero di eventi (nuove diagnosi di osteoporosi) riportati dalle pazienti stesse ma un’analisi dettagliata dell’osso non ha registrato altrettante differenze nelle variazioni di BMD tra i due trattamenti.
Anche uno studio che ha confrontat letrozolo con anastrozolo non ha mostrato differenze nella probabilità di sviluppare osteoporosi tra i due farmaci. Questi dati sono supportati da una recente pubblicazione dove non sono state rilevate differenze significative tra anastrozolo, exemestane e letrozolo né per quanto riguarda l’osteoporosi né per le fratture.

Bisfosfonati e denosumab

Attualmente sono disponibili diverse opzioni terapeutiche per mantenere la salute delle ossa nelle pazienti sottoposte a terapia con IA. I due principali trattamenti farmacologici prevedono l’impiego di bisfosfonati o di anticorpi monoclonali diretti contro RANKL (Receptor Activator of Nuclear factor Kappa-B Ligand) ovvero il denosumab.
I bisfosfonati comprendono una varietà di sostanze come l’acido zoledronico o l’acido ibandronico, approvate rispettivamente per il trattamento dell’osteoporosi e delle metastasi ossee.

Bisfosfonati

La serie più ampia di studi è stata eseguita sugli effetti dell’acido zoledronico per via endovenosa.
ZO-FAST, il più ampio di questi studi, ha rilevato un aumento del 5,7% nella BDM rispetto al placebo dopo 24 mesi (p<0,0001). Dopo cinque anni, la BMD della colonna vertebrale lombare era aumentata del 4,3% nel gruppo sottoposto a trattamento immediato rispetto a una perdita del -5,4% verificatasi per i pazienti con trattamento ritardato. Nello studio Z-FAST, l’uso immediato di acido zoledronico ha portato a una crescita della BMD della colonna vertebrale lombare superiore all’8,9% rispetto al gruppo ritardato di 60 mesi. Anche gli studi ZO-FAST e ABSCG-12 hanno ottenuto risultati simili.

Denosumab

In uno studio specifico, pazienti con massa ossea ridotta a seguito dell’utilizzo di IA sono state randomizzate per ricevere denosumab (60 mg sottocutaneo ogni sei mesi) o placebo. Dopo 12 e 24 mesi la BMD della colonna lombare era cresciuta rispettivamente del 5,5% e del 7,6% rispetto al placebo. Un altro studio ha confrontato l’utilizzo di denosumab contro placebo fino al raggiungimento di 247 fratture cliniche in donne in postmenopausa con cancro al seno precoce.
I ricercatori hanno registrato un numero complessivo di fratture nel gruppo denosumab pari a 92 rispetto alle 176 fratture nel gruppo placebo e il raggiungimento del valore limite è stato significativamente ritardato nel gruppo denosumab.
Recentemente, sono stati riportati i risultati in termini di sopravvivenza libera da malattia dopo un follow-up mediano di 73 mesi, significativamente migliori nel gruppo trattato con denosumab rispetto al placebo (HR 0,82, 95% CI 0,69-0,98, Cox p=0,0260).

Scelta del trattamento

Le scelta di farmaci e dosaggi avviene sulla base dell’indicazione per la quale si inizia la terapia. Le pazienti con tumore osseo metastatico da cancro al seno richiedono un trattamento ad alte dosi con acido zoledronico (4 mg al mese) o denosumab (120 mg al mese) con quest’ultimo favorito dai dati relativi alla riduzione di eventi scheletrici correlati. In pazienti con cancro al seno precoce, non metastatico, gli agenti antiriassorbenti possono essere applicati per prevenire (o ridurre) la perdita ossea indotta dal trattamento e per ridurre il rischio di sviluppare metastasi ossee.
Il rischio a lungo termine di sviluppare metastasi ossee può variare da un paziente all’altro, pertanto i medici devono prendere in considerazione anche valutazioni aggiuntive – come lo screening DTC o il profilo genetico del tumore – per definire il rischio individuale.

Una meta-analisi con oltre 18.000 pazienti ha mostrato che nelle donne in postmenopausa, i bifosfonati diminuiscono l’incidenza della metastasi ossea del 28% (p<0,0002) e la mortalità specifica del tumore al seno del 18% (p<0,002). Questi effetti erano indipendenti dal tipo di bifosfonato utilizzato e non si è avuto nessun risultato di questo tipo nelle donne in premenopausa. L’uso adiuvante di bisfosfonati in donne in postmenopausa con tumore al seno precoce è ora raccomandato dalla maggior parte delle organizzazioni europee e nordamericane. Nella maggior parte dei casi si raccomanda l’uso di acido zoledronico a una dose di 4 mg due volte l’anno.
I dato sull’uso di denosumab come coadiuvante per prevenire la recidiva ossea sono invece meno chiari.

Profilo di sicurezza cardiovascolare di abaloparatide

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Secondo lo studio pubblicato su JCEM Cardiovascular Safety of Abaloparatide in Postmenopausal Women With Osteoporosis: Analysis From the ACTIVE Phase 3 Trial” che ha analizzato il profilo di sicurezza cardiovascolare di abaloparatide nelle donne in postmenopausa con osteoporosi, l’uso del farmaco è associato a una crescita transitoria della frequenza cardiaca (HR) e a un modesto aumento della pressione sanguigna (BP) senza tuttavia che si verifichi un aumento del rischio di eventi cardiovascolari avversi (AE) – inclusi eventi maggiori (MACE) e insufficienza cardiaca (HF).

Abaloparatide è un farmaco osteo-anabolico, un analogo del peptide correlato all’ormone paratiroideo – PTHrP (1-34), che è stato approvato dalla Fda per il trattamento di donne in post-menopausa con osteoporosi ad alto rischio di frattura

ACTIVE e ATCIVExtend

I ricercatori di questo studio hanno esaminato il profilo di sicurezza cardiovascolare di abaloparatide rispetto a placebo e al trattamento con teriparatide. I dati sono stati raccolti in due studi, denominati ACTIVE e ACTIVExtend, condotti su donne in postmenopausa di età compresa tra i 49 e gli 86 anni con osteoporosi (definita dalla densità minerale ossea e dalla presenza di fratture precedenti). Nello studio ACTIVE, le donne sono state sottoposte per 18 mesi in maniera random a somministrazione con abaloparatide 80 µg in iniezione sottocutanea giornaliera, a placebo, o a somministrazione di teriparatide 20 µg sottocute. Dopo un periodo di circa un mese senza trattamento per ottenere un nuovo consenso, i partecipanti idonei trattati con abaloparatide o sottoposti a placebo sono stati arruolati in ACTIVExtend e trattati con alendronato 70 mg open-label una volta alla settimana per 24 mesi.

Aumento della frequenza cardiaca

Il trattamento con abaloparatide e quello con teriparatide sono stati associati a un aumento transitorio del battito cardiaco rispetto al placebo, con una media nella frequenza cardiaca massima leggermente superiore per l’abaloparatide.

Nello studio su volontari sani, l’aumento transitorio in HR si è risolto in un tempo variabile tra le 2,5 e le 4 ore. Rispetto al placebo, durante il primo anno di studio la pressione sanguigna un’ora dopo la prima dose è risultata leggermente più bassa per i gruppi di abaloparatide e teriparatide, con una differenza media massima di 1-3 mmHg. Né il trattamento con abaloparatide né quello con teriparatide sono stati comunque associati a un aumento degli eventi avversi cardiaci gravi. Infatti, con abaloparatide e teriparatide la frequenza di MACE e MACE + HF è stata numericamente più bassa e il tempo di prima incidenza di eventi MACE + HF è risultato significativamente più lungo rispetto al placebo. I risultati dello studio ACTIVExtend hanno indicato che, una volta che il trattamento con abaloparatide è stato interrotto, la frequenza di MACE e il tempo di prima incidenza di sono tornati simile tra i gruppi.

I risultati

Dopo la prima dose, la variazione media (tra parentesi la deviazione standard) dell’HR un’ora dopo il trattamento è risultata di 7,9 (8,5) battiti al minuto (bpm) per l’abaloparatide, 5,3 (7,5) per la teriparatide e 1,2 (7,1) per il placebo. Un modello simile è stato osservato nelle visite successive. Nei volontari sani, l’aumento della frequenza cardiaca si è risolta in quattro ore. Il corrispondente cambiamento nella pressione sistolica e diastolica media in posizione supina e nella pressione diastolica un’ora dopo il trattamento sono state rispettivamente di -2,7/-3,6 mmHg (con abaloparatide), -2,0/-3,6 (teriparatide) e -1,5/-2,3 (placebo). La percentuale di partecipanti con eventi avversi cardiaci gravi è stata simile tra i gruppi (0,9%-1,0%). In un’analisi post hoc, il tempo di prima incidenza di MACE + HF rispetto al placebo è stato più lungo sia con abaloparatide (P=0,02) che con teriparatide (P=0,04).

Abaloparatide Teriparatide Placebo
7,9 (8,5)  5,3 (7,5)  1,2 (7,1) 
7,3 (8,6)  5,1 (7,4)  1,6 (6,7) 
7,4 (8,2)  5,3 (7,3)  1,5 (6,7) 
6,8 (8,1)  6,0 (7,4)  1,2 (6,6) 
7,2 (8,2)  5,5 (7,3)  1,9 (6,6) 
7,2 (8,4)  5,9 (7,4)  1,8 (6,7) 

Tabella 1. Variazione HR  (bpm) un’ora post-trattamento. Media+Dev Std 

Nei 24 mesi di sperimentazione ACTIVExtend, quando il trattamento con abaloparatide è stato interrotto, la percentuale di partecipanti con MACE (1,3% abaloparatide/alendronato; 1,2% placebo/alendronato) e quella di partecipanti con MACE + HF (1,6% abaloparatide/alendronato; 1,6% placebo/alendronato) sono state simili tra i gruppi. Anche il tempo di prima incidenza di MACE e MACE + HF sono risultati simili tra i gruppi abaloparatide/alendronato e placebo/alendronato.

Il trattamento con abaloparatide non è stato associato a un aumento del rischio di eventi cardiovascolari avversi inclusi eventi maggiori e insufficienza cardiaca

Inoltre, il tasso di incidenza MACE normalizzato in base all’età per 100 anni paziente non è risultato significativamente diverso dopo il passaggio da abaloparatide ad alendronato (differenza tra abaloparatide e abaloparatide/alendronato= -0,36; P=0,29) o da placebo ad alendronato (differenza tra placebo/alendronato e placebo=-0,14; P=0,72).

Un meccanismo in comune

Il meccanismo con cui abaloparatide e teriparatide aumentano le frequenza cardiaca sembra simile, e potrebbe essere legato a un effetto sul nodo del seno atriale. Sebbene non si possa escludere una risposta della frequenza cardiaca alla vasodilatazione, non è stata osservata alcuna relazione significativa tra la diminuzione della BP e l’aumento dell’HR.

Anche se nello studio ACTIVE alcuni pazienti sono stati esclusi per malattie cardiovascolari significative, vi era una quota ampia di partecipanti – simile nei gruppi trattati attivamente e in quello sottoposto a placebo – che possedeva una storia di disturbi cardiaci e stava assumendo farmaci cardioattivi durante lo studio. La frequenza cardiaca prima del trattamento, comunque, era simile in tutti i gruppi. Secondo i ricercatori, il tasso inferiore di MACE e il tempo significativamente più lungo per la prima incidenza di MACE + HF con abaloparatide e teriparatide rispetto al placebo giustificano ulteriori indagini.

Lo studio

Felicia Cosman, Linda R Peterson, Dwight A Towler, Bruce Mitlak, Yamei Wang, Steven R Cummings, Cardiovascular Safety of Abaloparatide in Postmenopausal Women With Osteoporosis: Analysis From the ACTIVE Phase 3 TrialThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 105, Issue 11, November 2020, dgaa450, https://doi.org/10.1210/clinem/dgaa450

Aifa, consumo di Vitamina D ridotto del 30% dopo la Nota 96

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Attraverso un comunicato, Aifa fa sapere che nei primi nove mesi di applicazione della Nota 96 (novembre 2019/luglio 2020) si registra complessivamente una diminuzione del consumo e della spesa per i farmaci a base di Vitamina D di oltre il 30% rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di confezioni erogate sia di spesa sostenuta dal Servizio sanitario nazionale, con un risparmio medio mensile di circa 9,8 milioni di euro.
Non si osservano invece importanti aumenti dei consumi e della spesa di altri analoghi della Vitamina D non oggetto della Nota.

È quanto emerge dal monitoraggio realizzato dall’Agenzia per verificare gli effetti dell’applicazione della Nota 96, attraverso l’analisi dei dati nazionali e regionali.

L’impatto a livello delle diverse regioni è eterogeneo e dipende sia dai diversi scenari regionali preesistenti all’applicazione della Nota, sia dalle risposte osservate sul territorio dopo il provvedimento Aifa.

La Nota 96

Con la Nota 96, pubblicata il 28 ottobre 2019, l’Agenzia ha ridefinito le condizioni per la prescrizione a carico del Servizio Sanitario Nazionale dei farmaci a base di Vitamina D classificati in fascia A (rimborsabili dal SSN) – colecalciferolo, colecalciferolo/sali di calcio e calcifediolo – esclusivamente per la prevenzione e il trattamento della carenza di vitamina D nella popolazione adulta (>18 anni).

Per approfondire: “Vitamina D, nuovi criteri regolatori Aifa per la prescrivibilità a carico del Ssn“.

SCARICA LA SCHEDA PER GLI OPERATORI SANITARI

Prevenzione dell’osteonecrosi delle ossa mascellari (ONJ) nei pazienti in terapia anti-riassorbitiva

Nel Marzo 2020 sono state pubblicate le raccomandazioni clinico-terapeutiche sull’osteonecrosi delle ossa mascellari (ONJ osteonecrosis of the jaw) farmaco-relata (MR-ONJ Medication-Related ONJ) [1], a opera di una Commissione di esperti della Società Italiana di Chirurgia Maxillo-Facciale (Sicmf) e della Società Italiana di Patologia e Medicina Orale (Sipmo), con il patrocinio dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e della Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (Siomms). Si tratta di un documento articolato e complesso inerente tutti gli aspetti ezio-patogenetici, clinici e terapeutici della osteonecrosi delle ossa mascellari; rilevante per la pratica clinica quotidiana e per lo scopo di questa trattazione è la parte inerente la prevenzione della osteonecrosi delle ossa mascellari nei pazienti in terapia anti-riassorbitiva candidati a procedura odontoiatrica invasiva (avulsione dentaria, implantologia).

Gregorio Guabello
Gregorio Guabello

Il documento si avvale delle più recenti conoscenze riportate in letteratura internazionale sull’argomento, pur tenendo presente l’impossibilità, allo stato attuale, di definire linee guida basate sull’evidenza scientifica, a causa della identificazione relativamente recente della malattia ONJ e della difficoltà nella realizzazione di studi “ad hoc”.

Gli autori consigliano pertanto di utilizzare questo documento come strumento di “buona pratica clinica” nel percorso diagnostico-terapeutico della malattia, lasciando ampio spazio al giudizio clinico in ogni singolo caso trattato.

Punto di forza del documento è il confronto proficuo fra l’odontoiatra e lo specialista in osteoporosi (Bone Specialist) nella stesura delle raccomandazioni, che quindi hanno tenuto conto di un approccio multidisciplinare in relazione alla farmacocinetica e farmacodinamica dei farmaci ONJ-relati.

Definizione di osteonecrosi delle ossa mascellari (ONJ)

La ONJ viene definita come una necrosi ossea su base clinica e/o radiologica in un paziente con anamnesi farmacologica positiva per terapia in atto o pregressa con farmaci anti-riassorbitivi (amino-bisfosfonati, denosumab) e/o farmaci con attività anti-angiogenetica, in assenza di pregressa o coesistente radioterapia del distretto testa-collo (in questo caso l’entità nosologica viene definita più propriamente osteoradionecrosi).

La novità importante è considerare l’ONJ non più come una patologia relata esclusivamente alla terapia anti-riassorbitiva con amino-bisfosfonati (BRONJ Bisphosphonate-Related ONJ) ma anche ai nuovi farmaci anti-riassorbitivi come il denosumab e ai farmaci con attività anti-angiogenetica (MRONJ Medication-Related ONJ).

Pazienti osteo-metabolici vs pazienti oncologici/ematologici

Ai fini delle raccomandazioni, gli autori suddividono i pazienti in due grandi categorie.

Pazienti osteo-metabolici

Comprendono i seguenti pazienti:

  • pazienti in terapia anti-riassorbitiva per osteopenia/osteoporosi (primaria e secondaria) o per patologia osteometabolica benigna (es morbo di Paget osseo, algodistrofia, osteogenesi imperfetta);
  • pazienti in terapia anti-riassorbitiva in prevenzione primaria del danno osseo indotto dal blocco ormonale adiuvante nel carcinoma mammario e prostatico non metastatico (in letteratura questo tipo di danno osseo è noto con l’acronimo CTIBL – Cancer Treatment Induced Bone Loss).

I farmaci utilizzati in questo setting di pazienti sono farmaci anti-riassorbitivi, somministrati al dosaggio per l’osteoporosi:

  • aminobisfosfonati (alendronato 70 mg/settimana, risedronato 35 mg/settimana, ibandronato 150 mg/mese, zoledronato 5 mg ev/anno – Aclasta -, neridronato intramuscolo con schemi di somministrazione diversificati per osteogenesi imperfetta e morbo di Paget, neridronato endovena con schema codificato per algodistrofia);
  • denosumab 60 mg sc/6 mesi (Prolia).

Per quanto riguarda il clodronato (non amino-bisfosfonato), usato al dosaggio per l’osteoporosi di 100 mg intramuscolo/settimana, i casi di osteonecrosi delle ossa mascellari documentati in letteratura sono sporadici e, trattandosi di un bisfosfonato con bassissima affinità per i cristalli di idrossiapatite, sono descritti dopo lunga esposizione al farmaco [2].

Pazienti oncologici/ematologici

Comprendono i seguenti pazienti:

  • pazienti in terapia anti-riassorbitiva per metastasi ossee da tumore solido (CA mammella, prostata, polmone, rene);
  • pazienti in terapia anti-riassorbitiva per mieloma multiplo

allo scopo di ridurre l’incidenza dei SRE (Skeletal Related Events: frattura patologica, radioterapia o chirurgia dell’osso, compressione midollare).

I farmaci utilizzati in questo setting di pazienti sono farmaci anti-riassorbitivi, somministrati al dosaggio oncologico:

  • zoledronato 4 mg ev/4 settimane (Zometa)
  • denosumab 120 mg sc/4 settimane (X-Geva).

In questo setting di pazienti sono stati a oggi riportati reports sufficienti per un accertato, anche se difficilmente quantificabile, rischio di ONJ correlato ai seguenti farmaci anti-neoplastici (che possono essere usati da soli o in associazione con gli anti-riassorbitivi):

  • farmaci a prevalente azione anti-angiogenetica (bevacizumab, aflibercept);
  • inibitori tirosino-chinasici (sunitinib, sorafenib, cabozantinib);
  • inibitori di m-TOR (temsirolimus, everolimus) [3].

La distinzione dei pazienti nelle suddette due categorie è di fondamentale importanza nella pratica clinica in quanto se l’impatto epidemiologico della ONJ è di scarsa rilevanza nei pazienti osteo-metabolici (1:10.000 pazienti trattati), viceversa nei pazienti oncologici/ematologici, trattati con dosi anti-riassorbitive decine di volte superiori a quelle utilizzate per l’osteoporosi, l’aumento del rischio può arrivare fino al 7-10%, a seconda delle casistiche riportate in letteratura.

Stratificazione del rischio di osteonecrosi delle ossa mascellariONJ

Per i pazienti osteo-metabolici, esiste un continuum del rischio di ONJ che va da un rischio 0 a un rischio x.

Il rischio 0 comprende:

  • pazienti candidati a terapia anti-riassorbitiva ma non ancora iniziata;
  • pazienti già in terapia anti-riassorbitiva da meno di tre anni e senza fattori di rischio sistemici.

Il rischio x comprende:

  • pazienti già in terapia anti-riassorbitiva da più di tre anni;
  • pazienti già in terapia anti-riassorbitiva da meno di tre anni ma con fattori di rischio sistemici.

Per i pazienti oncologici/ematologici, esistono tre categorie di rischio:

  • rischio 0 (pazienti candidati a terapia anti-riassorbitiva ma non ancora iniziata);
  • rischio + (pazienti già in terapia anti-riassorbitiva senza concomitante assunzione di farmaci ad attività anti-angiogenetica e in assenza di fattori di rischio sistemici);
  • rischio ++ (pazienti già in terapia anti-riassorbitiva con concomitante assunzione di farmaci ad attività anti-angiogenetica e in presenza di fattori di rischio sistemici).

La stratificazione del rischio considera tutte quelle patologie locali (malattia parodontale) e sistemiche (terapia con glucocorticoidi, farmaci immunosoppressivi, artrite reumatoide, diabete mellito, tabagismo, etilismo, emopatie, HIV-positività, chemioterapia, diatesi trombofilica) che rendono ragione della complessità del singolo paziente nella pratica clinica quotidiana.

Pazienti candidati a terapia anti-riassorbitiva ma non ancora iniziata: necessità o meno della visita odontoiatrica preventiva

Per i pazienti osteo-metabolici, la visita odontoiatrica e le eventuali cure non sono perentorie prima dell’inizio della terapia ma sono fortemente consigliate entro i primi sei mesi della stessa, seguite da follow-up a lungo termine, con una frequenza consigliata non superiore ai sei mesi.
Per i pazienti oncologici/ematologici, la visita odontoiatrica e il trattamento delle patologie orali, se presenti, sono mandatorie prima dell’assunzione dei farmaci in questione; inoltre, nel caso siano indicate terapie chirurgiche odontoiatriche per la risoluzione delle patologie orali (es. avulsione dentaria), l’inizio della terapia con farmaci ONJ-relati è consigliato dopo circa quattro-sei settimane dalle procedure chirurgiche, e comunque non prima della completa guarigione del sito estrattivo; il follow-up odontoiatrico in questi pazienti deve prevedere controlli periodici con una frequenza non superiore ai quattro mesi.

Si fa chiarezza sul fatto che per i pazienti osteo-metabolici (il caso più frequente nella pratica clinica), l’inizio della terapia anti-riassorbitiva non è subordinato alla visita odontoiatrica preventiva, che tuttavia va consigliata entro i sei mesi dall’inizio della terapia per la presa in carico del paziente.

Pazienti in terapia anti-riassorbitiva candidati a procedura odontoiatrica invasiva: necessità o meno della sospensione della terapia

Pazienti osteo-metabolici
È possibile eseguire sia la chirurgia dento-alveolare (estrazione dentale) sia l’implantologia.

Per i pazienti in terapia con amino-bisfosfonati:

  • per i pazienti in terapia anti-riassorbitiva da meno di tre anni e senza fattori di rischio sistemici, non è indicata la sospensione della terapia;
  • per i pazienti in terapia anti-riassorbitiva da più di tre anni oppure da meno di tre anni ma con fattori di rischio sistemici, è consigliata la sospensione cautelare degli stessi tre mesi prima delle terapie odontoiatriche invasive, compatibilmente con la patologia di base e in accordo con il medico prescrittore, per poi riprendere l’assunzione degli stessi farmaci una volta terminato il processo biologico di guarigione dei tessuti orali (almeno quattro-sei settimane).

Per i pazienti in terapia con denosumab:

  • in presenza di procedure invasive odontoiatriche urgenti e non procrastinabili (es. estrazione dentaria), si consiglia di eseguire le manovre chirurgiche odontoiatriche dopo almeno tre settimane dall’ultima somministrazione di Prolia e comunque entro sei settimane prima della nuova somministrazione pianificata, concordando con il medico prescrittore la finestra terapeutica; la ripresa della terapia farmacologica sarà possibile dopo quattro-sei settimane dalla procedura chirurgica odontoiatrica, a guarigione del sito orale post-chirurgico;
  • in presenza di procedure invasive odontoiatriche procrastinabili (es. estrazioni dentarie, implantologia), si consiglia di eseguire le stesse a partire dalla fine del quinto mese dopo l’ultima somministrazione del denosumab, concordando con il prescrittore la finestra terapeutica (riassunzione di Prolia al settimo mese e in ogni caso dopo almeno quattro settimane dalla procedura odontoiatrica invasiva).

A oggi non esiste alcuna evidenza scientifica che supporti la reale validità della sospensione delle terapie ONJ-relate prima di una procedura odontoiatrica invasiva, al fine di ridurre il rischio di insorgenza di osteonecrosi delle ossa mascellari, se non l’esperienza clinica.
È tuttavia fondamentale tenere conto della differente farmacocinetica/farmacodinamica dei farmaci anti-riassorbitivi: i bisfosfonati si accumulano nell’osso con effetto coda alla sospensione mentre il denosumab ha una nota emivita con effetto di rimbalzo alla sospensione. La durata della terapia con bisfosfonati e la presenza o meno di fattori di rischio sistemici permette di considerare possibile la sospensione della terapia nei pazienti a maggiore rischio, tuttavia è utile ricordare che per gli amino-bisfosfonati con elevata affinità per i cristalli di idrossiapatite (alendronato, zoledronato) e quindi maggiore persistenza nell’osso, la sospensione può essere inutile ai fini della riduzione del rischio di osteonecrosi delle ossa mascellari.
Per il denosumab, la sospensione deve essere assolutamente evitata (rischio di fratture vertebrali spontanee da rimbalzo) e la raccomandazione è quella di creare una finestra di ripresa del rimodellamento osseo che possa favorire una più veloce guarigione del sito estrattivo. Altro punto cruciale è che l’odontoiatra non può arrogarsi il diritto di sospendere la terapia anti-riassorbitiva se non dopo accordo con il medico prescrittore, per le evidenti ripercussioni cliniche e medico-legali.
Infine, per quanto attiene all’implantologia, è dovere dell’odontoiatra/chirurgo orale informare il paziente già in fase di pianificazione terapeutica, che esiste un potenziale, seppur non quantificabile, rischio di sviluppare ONJ a livello del sito implantare, rischio legato al protrarsi negli anni della terapia con farmaci ONJ-relati e all’eventuale insorgenza di fenomeni di perimplantite.
Si afferma, quindi, la necessità di condividere con il paziente la scelta della riabilitazione implantologica e l’indispensabile adesione da parte del paziente a uno stretto programma di igiene orale e follow-up negli anni successivi. Nel caso di pazienti in terapia anti-riassorbitiva da più di tre
anni, soprattutto in presenza di concomitanti fattori di rischio sistemici, l’odontoiatra deve valutare attentamente le strategie protesiche alternative, pur non essendo controindicato il ricorso a tecniche di chirurgia implantare.

Pazienti oncologici/ematologici

È possibile eseguire la chirurgia dento-alveolare (estrazione dentale) mentre vi è una controindicazione assoluta all’implantologia (anche dopo cessazione della terapia, per un periodo di tempo ancora non definito).
È consigliata la sospensione cautelare di una settimana (per lo zoledronato) e di tre settimane (per il denosumab) prima delle terapie odontoiatriche invasive, compatibilmente con la patologia di base, per poi riprendere l’assunzione degli stessi farmaci una volta terminato il processo biologico di guarigione dei tessuti orali (almeno quattro-sei settimane).
Per i pazienti in terapia con bevacizumab, si ritiene prudente valutare insieme al medico prescrittore la sospensione del bevacizumab almeno 6 settimane prima delle procedure chirurgiche odontoiatriche.
Per i pazienti in terapia con inibitori tirosino-chinasici e inibitori di m-TOR, si può procedere con le terapie chirurgiche odontoiatriche dopo almeno una settimana dall’ultima somministrazione del farmaco, sempre di comune accordo con il medico prescrittore.

Le dosi di zoledronato e denosumab somministrate in questi pazienti sono molto alte e con cadenza mensile per cui per lo zoledronato la sospensione risulta sicuramente non utile mentre per il denosumab potrebbe avere una sua utilità anche se non ci sono dati in letteratura sui tempi necessari nell’off-treatment per la riattivazione del rimodellamento osseo.

Pazienti con diagnosi di ONJ in corso di terapia anti-riassorbitiva: necessità o meno della sospensione della terapia

Per i pazienti in terapia con amino-bisfosfonati (osteo-metabolici e oncologici), la sospensione della terapia rappresenta un atto medico con potenziali ricadute sulla salute del paziente quindi deve essere stabilita dallo specialista prescrittore del farmaco, in accordo con l’odontoiatra.
Per i pazienti in terapia con denosumab (osteo-metabolici e oncologici), la sospensione temporanea della terapia può rappresentare un’arma efficace per contrastare la progressione della malattia, nell’ottica di un trattamento multimodale della ONJ, per limitare il ricorso alle terapie chirurgiche più invasive. La sospensione deve comunque essere decisa dallo specialista prescrittore del farmaco, in accordo con l’odontoiatra, valutando il rapporto rischio/beneficio della cessazione della terapia in relazione alla malattia per cui lo stesso viene impiegato, e deve sempre prevedere un attento monitoraggio clinico-strumentale del rimaneggiamento osseo nel tempo.
Per i pazienti in terapia con farmaci anti-angiogenetici, la sospensione della terapia può rappresentare un’arma efficace per contrastare la progressione della malattia e deve essere sempre valutata per tempo se è previsto il trattamento chirurgico della lesione, nell’ottica di un trattamento multimodale di osteonecrosi delle ossa mascellari. La sospensione deve essere
decisa dallo specialista prescrittore del farmaco, in accordo con l’odontoiatra, valutando il rapporto rischio/beneficio della cessazione della terapia in relazione alla malattia per cui lo stesso viene impiegato.

A oggi non esistono studi di efficacia che supportino la sospensione della terapia anti-riassorbitiva in caso di osteonecrosi. È necessaria un’attenta rivalutazione del rischio fratturativo del paziente, valutando i pro e i contro della sospensione della terapia. In caso di sospensione di denosumab, va ricordata la necessità di un consolidamento farmacologico con amino-bisfosfonato, attualmente oggetto di studi clinici in letteratura.

Pazienti in terapia con teriparatide

Il teriparatide è un farmaco anabolizzante per cui è prescrivibile solo nel paziente osteo-metabolico affetto da osteoporosi ad alto rischio fratturativo, mentre è controindicato nel paziente oncologico.
Nel paziente osteo-metabolico in terapia con teriparatide candidato a procedura odontoiatrica invasiva (estrazione dentale, implantologia) non vi è alcuna necessità di sospensione, proprio in virtù dell’azione anabolica del farmaco.
Alcune segnalazioni in letteratura riportano risultati positivi del teriparatide nel trattamento della osteonecrosi delle ossa mascellari farmaco-relata refrattaria alla terapia antibiotica e antisettica comunemente utilizzata, con un netto miglioramento del quadro clinico e radiografico dopo terapia anabolizzante [4].

Per quanto attiene al possibile ruolo del teriparatide per il trattamento della ONJ da farmaci anti-riassorbitivi in pazienti esclusivamente non oncologici, l’eventuale indicazione deve essere condivisa con l’esperto in osteoporosi e l’inizio della terapia deve essere subordinata alla certificata consapevolezza da parte del paziente circa l’assenza di un’indicazione ministeriale specifica al suo utilizzo per ONJ farmaco-relata (acquisizione del consenso a terapia off-label).

Bibliografia

  1. Campisi G, Bedogni A, Fusco V Raccomandazioni clinico-terapeutiche sull’osteonecrosi delle ossa mascellari (ONJ) farmaco-relate e sua prevenzione, Palermo University Press, 2020
  2. Crépin S, Laroche ML, Sarry B, Merle L Osteonecrosis of the jaw induced by clodronate, an alkylbiphosphonate: case report and literature review, Eur J Clin Pharmacol. 2010 Jun;66(6):547-54.
  3. Nicolatou-Galitis O, Kouri M, Papadopoulou E, Vardas E, Galiti D, Epstein JB, Elad S, Campisi G, Tsoukalas N, Bektas-Kayhan K, Tan W, Body JJ, Migliorati C, Lalla RV; MASCC Bone Study Group, Osteonecrosis of the jaw related to non-antiresorptive medications: a systematic review. Support Care Cancer. 2019 Feb;27(2):383-394.
  4. Narongroeknawin P, Danila MI, Humphreys LG, Barasch A, Curtis JR Bisphosphonate-associated osteonecrosis of the jaw, with healing after teriparatide: a review of the literature and a case report. Spec Care Dentist 2010;30(2):77–82.

Influenza delle patologie della tiroide sul rischio di fratture da osteoporosi

Gli ormoni tiroidei sono fattori importanti che regolano il metabolismo e la differenziazione cellulare in tutto il corpo umano.

Una complicanza della patologia tiroidea è rappresentata da un’alterazione del metabolismo osseo che può portare a osteoporosi e a fratture da fragilità, solitamente associate a un alto rischio di mortalità entro il primo anno.

Sebbene vi sia un consenso sull’impatto negativo dell’ipertiroidismo sul metabolismo osseo, quando ci si riferisce a ipotiroidismo, ipotiroidismo subclinico o ipertiroidismo subclinico, non c’è accordo generale.
Per aggiornare medici e ricercatori sui dati attuali riguardanti la salute delle ossa nei pazienti con ipotiroidismo, ipotiroidismo subclinico e ipertiroidismo subclinico, un gruppo di ricercatori rumeni ha condotto una revisione della letteratura.

Patologie della tiroide e salute delle ossa

Ipotiroidismo

L’ipotiroidismo è rappresentato dal deficit di ormone tiroideo ed è una patologia diffusa in tutto il mondo, con una prevalenza fino al 7% nella popolazione generale. Le cause dell’ipotiroidismo possono essere suddivise in primarie, centrali e periferiche. L’ipotiroidismo primario è rappresentato dalla carenza di ormone tiroideo e comprende tiroidite autoimmune cronica, carenza di iodio o trattamento con radioiodio. L’ipotiroidismo centrale è rappresentato da deficit di ormone tireostimolante (TSH) o da deficit di ormone di rilascio della tireotropina (TRH) e include tumori ipofisari, disfunzione ipofisaria o disfunzione ipotalamica. L’ipotiroidismo periferico è rappresentato dalla resistenza periferica agli ormoni tiroidei e comprende una ridotta sensibilità agli ormoni tiroidei e la sindrome da consumo.

La diagnosi di ipotiroidismo richiede l’esame dei livelli di ormone stimolante la tiroide (TSH) e tiroxina libera. Se il livello di TSH è superiore all’intervallo normale, mentre il livello di tiroxina libera (FT4) è inferiore all’intervallo normale, viene diagnosticato l’ipotiroidismo primario. Quando è presente ipertiroidismo centrale (ipotiroidismo sia secondario che terziario), il livello di TSH può essere normale o basso, mentre il livello di FT4 è basso. L’ipotiroidismo periferico è una malattia congenita.

L’attuale trattamento dell’ipotiroidismo è rappresentato dalla monoterapia con levotiroxina. La dose viene aggiustata fino a normalizzare i livelli di TSH. Inoltre, in alcuni sottogruppi di pazienti può essere utilizzata una terapia di associazione levotiroxina-liotironina. Le complicanze dell’ipotiroidismo includono gozzo, malattie cardiovascolari, mixedema, infertilità e problemi di salute mentale.

Ipotiroidismo subclinico

L’ipotiroidismo subclinico è una forma lieve di ipotiroidismo definita come un livello di TSH più alto con un livello normale di tiroxina libera (FT4) sierica. Si ritiene che oltre il 20% delle donne di età superiore ai 75 anni presenti questa condizione. Le cause dell’ipotiroidismo subclinico includono tiroidite autoimmune, trattamento con radioiodio, tiroidectomia subtotale, tiroidite subacuta, farmaco-indotto e recettore del TSH. Chi soffre di ipotiroidismo subclinico ha maggiori probabilità di presentare affaticamento rispetto ai pazienti eutiroidei. Una revisione ha mostrato associazioni tra ipotiroidismo subclinico e malattia coronarica in pazienti più giovani con alti livelli di TSH, insufficienza cardiaca in pazienti con TSH>10 mIU/L, malattia cerebrovascolare in pazienti più giovani con alti livelli di TSH, profili lipidici avversi e diabete di tipo 2. Nessuna associazione è stata trovata tra ipotiroidismo subclinico e compromissione cognitiva, fragilità e funzione neuropsicologica. Attualmente non vi è consenso sull’opportunità di trattare l’ipotiroidismo subclinico.

Ipertiroidismo subclinico

L’ipertiroidismo subclinico è la forma lieve di ipertiroidismo ed è definito come un basso livello di TSH associato a livelli normali di tiroxina libera (FT4) e triiodotironina libera (FT3). Può essere causato dal morbo di Graves, dal gozzo tossico multinodulare, dall’adenoma tiroideo a funzionamento autonomo o da una condizione iatrogena nel carcinoma tiroideo differenziato. L’ipertiroidismo subclinico aumenta il rischio di fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca e mortalità complessiva (specialmente se i livelli di TSH sono <0,1 mIU/L). Il trattamento è raccomandato nei pazienti con TSH <0,1 mIU/L e di età pari o superiore a 65 anni, con malattie cardiache, sintomi di ipertiroidismo, osteoporosi o post-menopausa. Nel caso di un livello di TSH compreso tra 0,1 e 0,4 mIU/L e delle comorbidità menzionate, il trattamento è controverso.

Ipotiroidismo e salute delle ossa

La maggior parte degli studi dimostra che l’ipotiroidismo riduce la BMD e che valori di TSH sia al di sopra che al di sotto dei valori di riferimento riducono la BMD.

Per quanto riguarda l’incidenza del rischio di frattura nei pazienti con ipotiroidismo, due studi condotti su 92.341 e 16.249 pazienti hanno mostrato una maggiore incidenza di fratture in questi pazienti. Di conseguenza, i ricercatori ritengono che l’ipotiroidismo debba essere considerato un fattore di rischio per le fratture osteoporotiche.

Il trattamento dell’ipotiroidismo può invertire l’effetto negativo sull’osso?

Gli studi hanno dimostrato che il trattamento eccessivo dell’ipotiroidismo con levotiroxina è il principale fattore negativo sul metabolismo osseo e sul rischio di frattura.

I ricercatori non hanno trovato dati relativi alla possibilità che un trattamento dell’ipotiroidismo correttamente bilanciato possa invertire gli effetti negativi sull’osso.

Malattia autoimmune della tiroide e salute delle ossa

La malattia di Hashimoto può influenzare l’osteoprotegerina/attivatore del recettore del sistema ligando del fattore nucleare kappa-B (OPG/RANKL) e, a parte l’ipotiroidismo, portare potenzialmente a ulteriore perdita ossea. La presenza di anticorpi contro la perossidasi tiroidea (TPOAb) può essere un marker di aumento del rischio di fratture nelle donne eutiroidee in postmenopausa.

Ipotiroidismo subclinico e salute delle ossa

Sebbene studi precedenti abbiano dimostrato che l’ipotiroidismo subclinico abbia una ridotta influenza sulla perdita BMD e sull’aumento del rischio di frattura, i dati più recenti contraddicono questi risultati: dal 2014, tutti gli studi, sia prospettici che retrospettivi, non hanno mostrato alcuna influenza dell’ipotiroidismo subclinico né sulla BMD né sul rischio di frattura.

I dati recenti non indicano alcun impatto dell’ipotiroidismo subclinico sull’osteoporosi o sulle fratture da fragilità.

Gli stessi risultati sono stati ottenuti nel caso di trattamento di ipotiroidismo subclinico con levotiroxina. I dati prospettici più recenti contraddicono studi precedenti e concludono che il trattamento dell’ipotiroidismo subclinico con levotiroxina non influisce sulla salute delle ossa.

Ipertiroidismo subclinico e salute delle ossa

L’ipertiroidismo subclinico è considerato dalla maggior parte degli studi associato a una BMD inferiore e a un aumentato rischio di frattura. Solo pochi studi hanno dimostrato che l’ipertiroidismo subclinico non è predittivo di fratture accidentali dell’anca.

Pazienti affetti da ipertiroidismo subclinico possono presentare rischio più elevato di fratture rispetto ai pazienti eutiroidei.

I ricercatori hanno trovato solamente uno studio in cui è stato testato l’impatto della terapia con radioiodio nel caso dell’ipertiroidismo subclinico: il radioiodio ha effetti benefici sulla BMD, ma sono necessari ulteriori dati per supportare tale conclusione.

Disturbi della tiroide, osteoporosi e rischio di fratture

L’osteoporosi e le fratture da fragilità sono complicanze importanti dei disturbi della tiroide, associate a un aumento della mortalità.

I disturbi della tiroide hanno un impatto importante sul metabolismo osseo: ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico sono associati a una diminuzione della BMD e a un aumento del rischio di fratture

Il trattamento dell’ipotiroidismo con levotiroxina ha un’influenza sulla salute delle ossa simile all’ipertiroidismo.
L’ipotiroidismo subclinico, d’altra parte, non è associato a osteoporosi o fratture da fragilità e il trattamento dell’ipertiroidismo subclinico con iodio radioattivo potrebbe migliorare la salute delle ossa.

La revisione

D Apostu, O Lucaciu, D Oltean-Dan, A Mureșan, C Moisescu-Pop, A Maxim, H Benea The Influence of Thyroid Pathology on Osteoporosis and Fracture Risk: A Review, Diagnostics 2020, 10(3), 149; https://doi.org/10.3390/diagnostics10030149

Osteosarcopenia nelle donne in età riproduttiva con sindrome dell’ovaio policistico

L’osteosarcopenia (perdita di massa muscolare e ossea e conseguente fragilità, solitamente associata all’invecchiamento) condivide i meccanismi fisiopatologici con la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS). Tuttavia, la relazione tra osteosarcopenia e PCOS rimane poco chiara.

Lo studio condotto da un gruppo di ricercatori statunitensi e pubblicato su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ha valutato l’indice di massa muscolare scheletrica (Skeletal Mass Index% = SMI% = [massa muscolare appendicolare (di braccia e gambe)/peso (kg)] × 100) e della densità minerale ossea (bone mineral density = BMD) in donne affette da sindrome dell’ovaio policistico (PCOS iperandrogenismo + oligomenorrea) e il confronto di questi marcatori muscolo-scheletrici con quelli di tre fenotipi riproduttivi:
(i) HA (iperandrogenico + eumenorrea)
(ii) OA (normoandrogenico + oligoamenorrea)
(iii) controllo (normoandrogenico + eumenorrea).
Nei gruppo sono stati valutati i predittori endocrini di SMI% e BMD.
Lo studio multicentrico caso-controllo è stato condotto su 203 donne (18-48 anni) nello Stato di New York.

I risultati dello studio

Il gruppo PCOS ha mostrato una ridotta SMI% (media [intervallo di confidenza al 95% (CI)]; 26,2% [25,1-27,3] vs 28,8% [27,7-29,8]), SMI degli arti inferiori% (57,6% [56,7-60,0] vs 62,5% [60,3-64,6]) e BMD (1,11 [1,08-1,14] vs 1,17 [1,14-1,20] g/cm2) rispetto ai controlli. Il gruppo PCOS aveva anche una diminuzione della BMD dell’arto superiore (0,72 [0,70-0,74] vs 0,77 [0,75-0,79] g/cm2) e inferiore (1,13 [1,10-1,16] vs 1,19 [1,16-1,22] g/2) rispetto all’HA. L’indice di Matsuda era inferiore nella PCOS rispetto ai controlli e associato positivamente alla % di SMI in tutti i gruppi (tutti Ps ≤ 0,05). Soltanto i gruppi di controllo hanno mostrato associazioni tra il fattore di crescita insulino-simile (IGF) 1 e la BMD dell’arto superiore (r=0,84) e inferiore (r=0,72) (tutti Ps <0,01). A differenza della PCOS, la proteina 2 legante l’IGF era associata con SMI% nei controlli (r=0,45) e HA (r=0,67) e con BMD dell’arto superiore (r=0,98) in HA (tutti Ps <0,05).

Sindrome dell’ovaio policistico e osteosarcopenia

Le donne con PCOS mostrano segni precoci di osteosarcopenia rispetto ai gruppi di controllo, probabilmente attribuibili all’interruzione della funzione insulinica.

Comprendere il grado di deterioramento muscoloscheletrico nella PCOS è fondamentale per l’implementazione di interventi mirati che prevengono e ritardano l’osteosarcopenia in questa popolazione clinica.

Lo studio

M Kazemi, B Y Jarrett, S A Parry, A Thalacker-Mercer, K M Hoeger, S D Spandorfer, M E Lujan, Osteosarcopenia in reproductive-aged women with polycystic ovary syndrome: a multicenter case-control studyThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolismhttps://doi.org/10.1210/clinem/dgaa426

Correlazione tra nutrizione materna e nella prima infanzia e sviluppo di osteoporosi in età adulta


Carla Lertola
Carla Lertola, dietologa

Nonostante l’oramai assodata eziologia multifattoriale dell’osteoporosi, la sua patogenesi non è ancora del tutto chiara. Ricerche recenti hanno evidenziato come la nutrizione della madre durante la gravidanza e il successivo allattamento possa avere conseguenze a lungo termine anche sul metabolismo osseo della prole.
Per tale motivo, la teoria del DOHaD (Developmental Origins of Health and Disease), che ritiene che l’esposizione ambientale nei primi anni di vita determini il rischio di malattie cardiovascolari nell’età adulta, potrebbe essere estesa anche ad altri campi. La review “Maternal nutrition and the developmental origins of osteoporosis in offspring: potential mechanisms and clinical implications” ha lo scopo di indagare le conseguenze dell’alimentazione materna sulla salute dell’osso dei figli e può gettare le basi per future ricerche in tale ambito.

Carla Lertola, dietologa


L’osteoporosi è il più frequente disturbo del metabolismo osseo e aumenta la morbilità e la mortalità degli esseri umani. Conseguenze della minor densità minerale e dell’anomala microarchitettura ossea causate dall’osteoporosi sono l’aumento della fragilità ossea e del rischio di fratture. La malattia metabolica colpisce entrambi i sessi e tutte le razze.
Per farsi un’idea dell’entità del problema, basti pensare che il numero di donne di età superiore ai 50 anni che soffrono di osteoporosi salirà a oltre 10 milioni entro quest’anno e che, negli USA, la prevalenza di fratture correlate all’osteoporosi è di oltre 1,5 milioni all’anno: Il tasso di mortalità entro un anno dalla frattura dell’anca è compreso tra il 5% e il 20% e si stima che nel 2050 il numero di fratture dell’anca aumenterà del 240% nelle donne e del 310% negli uomini, con 6,26 milioni di fratture dell’anca in tutto il mondo.
Le fratture vertebrali sono caratteristiche dell’osteoporosi e tendono a verificarsi in età più giovane rispetto ad altre fratture e sono associate a maggiori rischi di successive fratture anche non vertebrali.

L’osteoporosi è un problema di salute globale, con un carico sociale ed economico in ascesa in tutto il mondo.

L’insorgere di malattie metaboliche può essere correlato agli stili di vita nella prima infanzia

Negli ultimi anni è emerso in modo sempre più chiaro che l’ambiente della prima infanzia determina lo sviluppo delle malattie nell’età adulta. Studi epidemiologici e su animali hanno dimostrato che la malnutrizione precoce può influire sullo sviluppo di una serie di malattie cardiometaboliche, come obesità, insulino-resistenza, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e ictus. In particolare, lo stile di vita dei primi anni e specialmente la nutrizione intrauterina e postnatale hanno effetti metabolici a lungo termine nella vita adulta.
Questa teoria, proposta per la prima volta negli anni ’90, è nota come “Origini dello sviluppo della salute e della malattia (DOHaD)” e dimostra che le risposte adattative nel bambino possono determinare, a lungo termine, il rischio di malattie negli adulti. Nonostante la numerosa letteratura a testimonianza di tali legami, le associazioni tra nutrizione materna e/o perinatale e osteoporosi nella prole in età avanzata non erano state completamente chiarite e sono state analizzate attraverso la revisione “Maternal nutrition and the developmental origins of osteoporosis in offspring: potential mechanisms and clinical implications“.

Alimentazione materna e nella prima infanzia e sue implicazioni per l’osteoporosi

La fase iniziale della vita e specialmente il periodo perinatale rappresentano la finestra temporale critica per la crescita e lo sviluppo.
L’accumulo di minerali nelle ossa è influenzato da fattori ambientali durante l’infanzia e la pubertà ed è relativamente più rapido nei primi anni di vita. Inoltre, l’assunzione di sostanze nutritive da parte della madre durante la gravidanza può avere effetti sulla salute metabolica delle ossa nella prole.

Prove crescenti suggeriscono che la nutrizione della madre in fase di gestazione e della prole nella prima infanzia svolga un ruolo significativo nel metabolismo osseo e determini la suscettibilità all’osteoporosi in età avanzata.

Prove emergenti hanno fortemente suggerito che le modificazioni epigenetiche potrebbero essere i meccanismi alla base delle origini evolutive dell’osteoporosi. Tuttavia, il meccanismo dettagliato tra epigenetica e osteoporosi non è stato ancora completamente chiarito. Pertanto, sono necessari ulteriori studi clinici e di base per chiarire i potenziali meccanismi. I ricercatori affermano che le origini evolutive dell’osteoporosi possano fornire una base teorica per la prevenzione precoce dell’osteoporosi.

Lo studio

Zheng, J., Feng, Q., Zheng, S., & Xiao, X. (2018). Maternal nutrition and the developmental origins of osteoporosis in offspring: Potential mechanisms and clinical implicationsExperimental Biology and Medicine243(10), 836–842. https://doi.org/10.1177/1535370218779024

Osteonecrosi del ginocchio, quando fare la protesi?

Biazzo Alessio, ortopedico, specialista in protesi del ginocchio e dell’anca con tecnica mininvasiva

L’osteonecrosi è una patologia vascolare dell’osso caratterizzata da un vero e proprio infarto tissutale, proprio come avviene per il cuore o altri tessuti. Le sedi più frequenti sono il ginocchio, l’anca e la caviglia.

Cause dell’osteonecrosi

Le cause possono essere molteplici e possono così essere riassunte:

  • traumatiche;
  • iatrogene (uso prolungato di cortisone);
  • patologie del sangue, come l’anemia a cellule falciformi, per la particolare forma dei globuli rossi, che può causare una ostruzione dei piccoli vasi sanguigni;
  • abuso di alcool, a causa del deposito dei grassi nei vasi sanguigni;
  • radioterapia.

I sintomi dell’osteonecrosi

La sintomatologia è la stessa indipendentemente dalla localizzazione: dolore, gonfiore articolare con associato versamento, limitazione funzionale e zoppia.

Se trascurata, l’osteonecrosi può essere causa di artrosi secondaria.

Diagnosi

La diagnosi è clinica e strumentale: un accurato esame del paziente alla ricerca di punti dolorosi è molto indicativo. L’esame strumentale per eccellenza è rappresentato dalla Risonanza Magnetica Nucleare, soprattutto nelle fasi iniziali, quando spesso le comuni radiografie non riescono a vedere l’osteonecrosi.

Trattamento

Il trattamento dipende dai sintomi del paziente, dal grado di limitazione funzionale, dall’entità del danno osteocartilagineo e dalla sua localizzazione (se il danno non interessa la superficie articolare difficilmente il paziente sarà sintomatico!) e dalle aspettative del paziente.

Il trattamento iniziale è quasi sempre conservativo, e consiste in riposo e scarico dell’articolazione colpita, farmaci antinfiammatori non steroidei, magnetoterapia e fisioterapia. In alcuni casi i farmaci per l’osteoporosi, come i bisfosfonati, possono essere utilizzati con notevole beneficio clinico.
Quando i trattamenti citati non hanno dato un beneficio clinico e quando all’osteonecrosi si associa artrosi secondaria con limitazione funzionale, bisogna ricorrere alla chirurgia, che può consistere in un trattamento artroscopico (microperforazioni cartilaginee) o in trattamenti più invasivi come le protesi di ginocchio.

Quale protesi scegliere

Generalmente l’osteonecrosi si localizza sul condilo femorale mediale e se presa in tempo consente di essere trattata mediante protesi mininvasive come le protesi monocompartimentali, che rispettano l’anatomia del paziente, lasciando intatti i restanti compartimenti del ginocchio edi legamenti crociati, anteriore e posteriore, responsabili della propriocezione.

Protesi d’anca in paziente affetta da iposurrenalismo

La paziente A. M., 56 anni, affetta da acromegalia e in terapia ormonale sostitutiva per deficit secondario della funzione surrenalica, si presenta al chirurgo ortopedico per una severa artrosi dell’anca.
Viene posta indicazione per il posizionamento di una protesi d’anca.
La produzione di cortisolo necessario per gestire la condizione di stress legata all’intervento viene a mancare completamente in pazienti affetti da iposurrenalismo.
L’ortopedico chiede quindi una consulenza endocrinologica, affinché lo specialista valuti la terapia ormonale sostitutiva e possa fornire all’anestesista uno schema di supplementazione di idrocortisone.

 

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